Il padre di Michelangelo (Mongi) compra a un’asta online un vecchio cabinato che dovrà diventare il suo ufficio e la casa estiva, sogno del figlio. Non l’ha ancora messa in acqua che qualcuno chiama per sapere se sono interessati a venderla. È durante i lavori di ripristino che Mongi trova, nascosto in una cabina, un manoscritto in cui si parla del tesoro di Berenson.
Scopre presto che a scriverlo era stata proprio la precedente proprietaria della barca, Carlotta Alessandrini, una stimata antiquaria, uccisa una notte a bordo e il cui assassino non è mai stato trovato. Tocca a lui ora fare luce sul mistero e soprattutto capire che fine ha fatto il tesoro, una serie di opere d’arte trafugate dai nazisti durante la guerra. L’indagine non è affatto semplice e a complicare le cose è la presenza, invisibile ma costante, di un uomo sconosciuto che sembra aspettare l’occasione giusta per riprendersi quello che ritiene sia suo.
- Titolo: La leggenda di Berenson
- Copertina flessibile: 169 pagine
- Editore: Pelledoca Editore (28 marzo 2018)
- Collana: NeroInchiostro
- di Alessandro Zannoni (Autore)
- Età di lettura: da 11 anni
Leggi i primi 3 capitoli del libro
Uno
Michelangelo non ha chiuso occhio tutta la notte, troppo agitato e impaziente per quello che deve accadere. Dall’alba è alla finestra che osserva il risveglio del mondo, mentre il suo cane Bullo ancora ronfa beato sul letto. Ama passare l’estate qui, a casa dei nonni – dove vive anche suo padre, da quando i suoi genitori si sono separati – invece che in città dalla mamma. La casa è circondata da enormi lecci, proprio davanti alla darsena di famiglia, che il nonno ha fondato negli anni Sessanta strappando la terra al fiume Magra. Il porticciolo ha un grande bacino centrale di ormeggio, protetto da argini costellati di salici rigogliosi, e ai lati tre canali che convogliano le acque di piena invernale e le disperdono nei campi circostanti. C’è un bar ristorante, un grande piazzale ricoperto di ghiaia dove tirano le barche in secca, e un’officina.
Alle sette, Michelangelo ha visto il nonno uscire di casa, prendere la bicicletta e fare il solito giro per tutta la darsena, su ogni banchina del porticciolo, per controllare che tutto filasse liscio; poi ha visto arrivare Mariella e il marito, i gestori del bar ristorante, seguiti da Mauro e Roberto, i lavoranti della darsena, e poco tempo dopo ha sentito suo padre Lorenzo scendere le scale e uscire di casa con lo zio Francesco. Da qualche anno sono diventati i gestori ufficiali della darsena, anche se il nonno è sempre presente.
Li ha immaginati, tutti insieme, prendere il primo caffè della giornata al bar e organizzare il lavoro.
Alle otto, guardando verso le banchine, ha visto uscire i primi ospiti dalle barche. Di solito sono l’avvocato Parmoli, il bergamasco della barca a vela Oceanis 46, che va a correre, e poi l’ingegner Benassi, che come sempre se ne va col suo Sunseeker Sanremo per passare tutta la giornata in mare.
Michelangelo controlla ogni dieci minuti l’orologio del cellulare, il tempo sembra non scorrere mai. Poi finalmente suo padre e suo zio si avviano verso il piazzale; prima di salire in macchina, il padre guarda verso la casa, scorge il figlio alla finestra e alza la mano, il ragazzo ha un tuffo al cuore. Pensa che ormai manca davvero poco.
L’uomo è seduto sulla panchetta imbottita del gommone, ancorato dall’altra parte del fiume. Ha un cappello a tesa larga che gli copre quasi tutto il volto. In mano tiene una canna da pesca, ogni tanto recupera l’esca e la rilancia a casaccio.
Non è qui per pescare. Nell’altra mano ha un binocolo militare piccolissimo ma molto potente, lo punta sulla barca che sta passando sotto il ponte.
La riconosce, è quella che aspettava.
Pensa che sono passati sei anni da quando ci ha messo piede. Pensa che ci ha ucciso una donna.
Michelangelo è seduto sotto un albero vicino all’imboccatura del porticciolo, osserva ogni barca che passa sul fiume, ormai non riesce a contenere l’eccitazione. Non ce la fa più a stare seduto, si alza, tira calci a dei sassi, si mette le mani in tasca, le ritira fuori, sbuffa. Quando il telefonino squilla, quasi lo fa cadere in acqua.
«Pa’, dove sei?»
«Mi serve il gommone, sto andando a un motore solo.»
«Mando lo zio?»
«Sì. Sto passando adesso sotto il ponte della Colombiera, sbrigatevi.»
Michelangelo corre lungo la banchina, risale il dosso di erba curata, trova lo zio Francesco nel piazzale, sta lavorando alla chiglia di una barca a vela.
«Arriva! Ha bisogno del gommone per entrare. È già al ponte!»
«Vieni anche tu?»
«No, vi aspetto in banchina con le cime.»
Lo zio corre al gommone, ci salta dentro, mette in moto e apre il gas. Smuove onde che agitano le placide barche ormeggiate, l’urlo del motore fa girare la testa dei clienti seduti al bar della darsena.
In realtà Michelangelo non è andato con lui perché vuole godersi l’arrivo trionfale della sua barca, vuole riempire gli occhi del desiderio che si avvera. Corre di nuovo al suo punto di osservazione. Pensa alle litigate che si sono fatti suo padre e il nonno, per quella barca! Il nonno era assolutamente contrario, diceva che erano soldi buttati, che avrebbe dato solo problemi, che era troppo vecchia, che aveva bisogno di una manutenzione continua, senza contare che li avrebbe privati di posti barche da affittare e dei conseguenti guadagni. Ma suo padre era stato irremovibile, e almeno per quella volta zio Francesco era stato d’accordo con lui: era un affare, una barca storica inusuale da quelle parti, sarebbe stata un’attrazione per nuovi clienti e un biglietto da visita perfetto per la darsena; e poi erano anni che papà sognava una barca da usare come casa dove passare l’estate.
Nonno Dario aveva tenuto il muso per parecchio tempo. Michelangelo aveva sperato che il padre non cambiasse idea, soprattutto dopo aver visto le foto di quel vecchio rimorchiatore riadattato a casa galleggiante e aver saputo della sua cabina personale con la tv. Sperava di poterci tenere anche Bullo.
Sì, per loro quello è un sogno che si avvera, per questo gli occhi gli si riempiono di lacrime di gioia, appena la vede sbucare dalle alte canne che la nascondevano alla vista.
Francesco, dal gommone di servizio, ha lanciato una cima che Lorenzo ha assicurato a prua per farsi trasportare docilmente all’ormeggio.
Il nonno, a lente pedalate svogliate, raggiunge il nipote, si ferma e appoggia un piede a terra. Lui pensa: “Ti prego nonno, non fare sceneggiate, non rovinarmi questo momento”.
«Te sei contento, eh?» dice a mezza voce il nonno e non aggiunge altro. Rimane col nipote a osservare questo ingresso trionfale, e lo fanno anche i clienti al bar: si sono alzati dai tavolini e osservano la scena parlottando tra loro, qualcuno si affaccia dalle barche ormeggiate.
Lorenzo saluta con la mano dal finestrino della cabina di guida, ha un sorriso da bambino. Michelangelo ricambia il saluto, intanto pensa che sembra il Papa e sorride forte. Sente un brivido lungo le gambe e la schiena, poi ripete automaticamente tutto quello che ha imparato.
«Questa barca è stata costruita nel 1942 nei cantieri Pohl & Jozwiak di Amburgo; lo scafo e la sovrastruttura sono in acciaio, è lunga quindici metri e larga quattro e mezzo, pesca un metro e ottanta centimetri…»
Il nonno bofonchia qualcosa sull’occupare un sacco di spazio, lui non si interrompe.
«Ha la postazione di comando interna e due motori Mercedes da duecentocinquanta cavalli ciascuno. Ha l’ecoscandaglio, l’elica di prua, il contagiri, la bussola, la radio vhf, il sistema di navigazione satellitare…»
Il nonno commenta che una barca così vecchia darà solo problemi.
«Ci sono tre cabine, tre bagni, l’alloggio per l’equipaggio, una cucina e un salotto.» Michelangelo guarda entusiasta il nonno, indica la barca. «E quello è il solarium, dove metteremo un bel tavolo per mangiare all’aperto!»
Francesco grida: «Alle cime!» e Michelangelo scatta. Ne prende una, ferma un capo alla bitta in banchina, prende l’altro capo e poi la avvolge attorno al braccio, morbida, pronta per il lancio.
Il padre è impegnato nella manovra, lavora con la retromarcia e la marcia avanti per posizionarsi nella maniera migliore, mentre Francesco ha mollato la cima di traino e si appoggia allo scafo con la prua rinforzata del gommone, spingendolo verso l’ormeggio.
Il ragazzo pensa che è una danza, quella che sta facendo lo zio, una danza col gommone: spinge la barca da una parte, poi scappa via, le gira attorno, la spinge dall’altra parte per compensare l’abbrivo, poi torna a poppa e spinge di nuovo, poi ancora a prua, a bilanciare la spinta, cadenzato, sicuro, puntuale. Lo zio è il miglior ormeggiatore, pensa, e lo osserva per imparare ogni mossa. Vorrebbe diventare bravo come lui.
“Ecco, questo è il momento” pensa Michelangelo, e lancia la cima d’ormeggio al padre, che blocca la prua e poi corre lungo la fiancata e si prepara a ricevere la cima di poppa. Ma non è il ragazzo a lanciarla, è il nonno, che scuote la testa ma un po’ sorride, perché la barca deve essergli piaciuta.
Michelangelo ora è impalato a guardare il padre che assicura la barca al molo, a osservare la bellezza di questo sogno vero.
Quando Lorenzo lo invita a salire, tira un grande respiro e sorride nervoso.
«Mi tolgo le scarpe, pa’?»
«Lo farai quando avremo finito i lavori di restauro, adesso le puoi tenere.»
Michelangelo fa un piccolo salto, sale a bordo e si butta tra le braccia di suo padre.
«È nostra, è nostra per davvero.»
«Sì, Mongi» dice Lorenzo mentre gli scompiglia i capelli. «Vedrai, questa barca ci cambierà la vita.»
Sì, gliela cambierà eccome, e non immaginano quanto.
L’uomo chiude la canna, issa l’àncora a bordo e accende il motore. Attraversa il fiume, puntando la prua verso l’imboccatura della darsena. Ci passa davanti col motore che scoppietta al minimo. Dà una rapida occhiata al posto, individua dove è ormeggiata la barca, prosegue con calma lungo la sponda sinistra. Si gratta la cicatrice sull’occhio destro.
Pensa che dovrà stare attento, è un posto molto frequentato.
Due
Tutti sono arrivati come formiche allo zucchero. Sulla banchina c’è un bel numero di persone che stanno contemplando e parlando della barca; ogni attività in darsena è stata sospesa per venire a omaggiare la nuova arrivata. Suo padre è sceso a terra, mulina le mani mentre risponde a domande, sembra più agitato del figlio, ma di certo trasmette felicità. Zio Francesco è salito a bordo con Roberto e Mauro e sono andati in perlustrazione; il nonno è un poco discosto, seduto sulla bici, parlotta con un amico di famiglia, dall’espressione si percepisce che sta cambiando opinione sull’acquisto.
Michelangelo li guarda dall’alto della cabina di pilotaggio, felice, legge nei loro sguardi ammirazione. Afferra e muove il timone, guarda la strumentazione, pensa che il bello di avere una casa che galleggia è che puoi spostarla dove vuoi. Immagina quando sarà grande e potrà vivere dovunque ma sempre a casa sua, intanto inspira forte un odore deciso di legno vecchio e muffa, di avventure vissute in tutti i mari del mondo, e non smette di sorridere.
Scende alcuni gradini per entrare nella parte sopraelevata del rimorchiatore diventata salotto/cucina/sala da pranzo. È strabiliato da come sembri di stare in una casa vera, e non bada al disordine, allo sporco e alla confusione. No, lui pensa solo che è la barca più bella che abbia mai visto: non ci sono oblò ma finestre rettangolari alte e lunghe, qualcuna abbellita da una tendina a scacchi; una grossa porta in legno e vetro per uscire che sembra la porta di una casa e dà sulla spiaggetta di poppa; c’è un divano angolare che sembra comodissimo, una libreria bassa stracolma di libri, un tavolo da appoggio, due poltrone in pelle; al centro della parete c’è addirittura una stufa, dall’altro lato un tavolo rettangolare con le sedie, una credenza piena di bicchieri e piatti di porcellana bianca; all’altro angolo della grande sala c’è la cucina provvista di tutto.
Ride e gli salgono le lacrime agli occhi, è davvero più bella di come se la aspettava.
Si sdraia sul divano, gli occhi al soffitto, e si accorge che è ricoperto di travi di legno elegantissimo, con due belle lampade rosse incastonate. Pensa che chiunque abbia messo a posto in quel modo quell’ex rimorchiatore – che immagina fosse pieno di olio, grasso, morchia, ferro arrugginito e materiale da lavoro – dovesse essere ricco, molto ricco. Si domanda a che cifra suo padre può aver comprato quel gioiello, perché anche se è un vecchio rimorchiatore del 1942 e puzza di muffa, deve essere costato parecchio riadattarlo e risistemarlo così bene, e nessuno regala niente, questo suo padre gliel’ha sempre detto.
D’un tratto si rende conto dello stato di abbandono della barca, come se i proprietari l’avessero lasciata in fretta e furia, e pensa che il grosso del lavoro sarà pulire e riordinare tutto.
Si dà una grattata alla testa, si liscia i capelli biondi a spazzola, adesso scende nel cuore della casa, dove si dorme. Torna alle scalette che portano alla cabina di guida, e sulla destra ne scende altre in legno consunto che lo portano a uno stretto corridoio dove si affacciano le cabine. Ha il cuore in gola dall’emozione mentre apre tutte le porte, controlla la spaziosità di ognuna, cercando di scegliere quale sarà la sua.
“Anche qui sotto hanno fatto un lavoro perfetto” pensa, le cabine sono diventate vere e proprie camere da letto: tutte le pareti sono rivestite in legno, i letti sono grandi, gli armadi e i comodini sono roba da albergo. E ognuna ha un bagno spazioso, da barca di lusso. Ma una cabina in particolare attira la sua attenzione: c’è un letto a castello in legno scuro, vecchissimo, e le pareti sono ricoperte sempre in legno, così come i due armadi a un’anta, che si aprono con una maniglia di ottone lucente, lucente come il grande oblò al centro della cabina.
“È perfetta, sarà la mia camera” pensa deciso.
«Lo sapevo che avresti scelto questa» dice suo padre dietro di lui.
Il ragazzo si gira, gli sorride, fa due passi e si butta sul letto più basso.
«Sono troppo felice, pa’. È molto più bella di quello che pensavo.»
«Te lo avevo detto che ti saresti innamorato.»
«Quanto l’hai pagata?»
«Per quello che vale, davvero poco» e si mette a curiosare in giro per la cabina. Si inginocchia, controlla negli angoli, batte sul legno del rivestimento, sul pavimento.
«Meno male che qui non hanno messo finestre» ride Lorenzo aprendo l’oblò. «Dai, dobbiamo aprirli tutti, l’aria deve girare. È stata chiusa troppo tempo.»
Michelangelo lo guarda con la faccia di uno che sta aspettando una risposta.
«La vera spesa sarà restaurarla, Mongi. Vieni a vedere.» Girano per la barca, il padre gli mostra tutte le parti da sostituire, i lavori che dovranno fare, le migliorie che dovranno apportare.
«È stata ferma per sei anni, nessuno se ne è preso cura.» Col dito gli indica un oblò. «Apri anche quello, per piacere.»
«Pa’, io ci voglio dormire già da stasera, eh.»
«Mongi, abbi un…»
«E magari faccio venire anche Tommi.»
«… po’ di…»
«Pensi che potremmo viverci anche in inverno? Ho visto una stufa, di sopra.»
«… pazienza!»
Il padre ride e scuote la testa. Lo sapeva che sarebbe andata così, suo figlio sarebbe andato oltre. Ma è quello che vorrebbe fare presto anche lui, in effetti.
Dopo il giro e l’apertura di ogni oblò e finestra, si mettono seduti su due sedie nella spiaggetta di poppa. Rimangono in silenzio, ognuno perso nei propri pensieri fino a quando il padre parla.
«Questa barca ci porterà bene, lo sento. Mi hanno già chiamato per comprarla, ti rendi conto? Faccia lei l’offerta, mi hanno detto.»
Sorride, poi aggiunge: «Se avessimo bisogno di soldi, potremmo venderla e guadagnarci parecchio, sai?»
Michelangelo si ridesta dai sogni, si rabbuia.
«Ma noi non la venderemo mai, vero? Promettimelo, papà.»
«Puoi starne certo.»
Tre
La sera per Michelangelo è stata dura tornare a dormire in casa.
Suo padre lo ha costretto, ridendo, a darsi una calmata, e gli ha fatto scrivere una lista di cose da fare per rendere la cabina abitabile: togliere coperte e materassi e verificare se sono ancora utilizzabili; controllare le luci, cambiare le lampadine bruciate; segnare le assi delle pareti da sostituire, rimuovere con un prodotto a base di ammoniaca tutte le tracce di muffa; passare l’aspiratutto, lavare e dare l’olio protettivo al pavimento in tek.
Lui ha letto e riletto le istruzioni, sdraiato e senza sonno, mentre Bullo gli leccava i piedi appoggiati sulla sua pancia.
Stamani, come d’accordo, il padre lo sveglia presto.
«Su, colazione veloce, poi prendi i libri per i compiti e andiamo.»
Michelangelo non fa storie, era nei patti dell’estate, e ora, con la faccenda della cabina in ballo, è ancora più facilmente ricattabile, quindi accetta tutto di buon grado. Prima di fare colazione, riempie di crocchette la ciotola del cane, poi si siede di fronte al padre che sta ascoltando un radiogiornale.
«Ma pa’, la nostra barca ce l’ha un nome?»
«Non l’hai letto sulla fiancata?»
«Non ci ho fatto caso.»
«Memento.»
«Memento? Ma che nome è…»
Il padre alza le spalle, Mongi ci pensa intanto che inzuppa un biscotto nel latte, poi dice: «Se non ci piace possiamo cambiarlo?»
«Certo. Possiamo fare tutto quello che vogliamo» e sorride.
Michelangelo passa un’oretta striminzita studiando sul libro delle vacanze abbastanza concentrato, anche se ogni tanto si alza e va alla finestra per controllare che il sogno sia ormeggiato al suo posto.
Pensa che davvero la Memento ci stia benissimo nel porticciolo, e forse riuscirà ad abituarsi a quel nome, sempre che non gliene venga in mente un altro.
«Attento a non finire in acqua» dice il ragazzo a Bullo mentre salgono a bordo. «E non pisciare in barca, intesi?» Bullo inizia a perlustrare annusando tutto ciò che incontra, da prua a poppa, lui invece si dirige verso il locale macchine, dove sa che troverà suo padre con Mauro, l’asso dei motori, quello che risolve ogni problema meccanico.
«Ciao Mauro, come va?»
Mauro bofonchia una risposta debole mentre sta con la testa penzoloni dietro il motore di destra, il padre invece gli passa gli attrezzi.
«Ha già sistemato la pompa dell’aria condizionata, ora vediamo se capisce cosa non funziona nel motore. Te hai finito i compiti?»
«Tutti. Ora mi metto a sistemare la mia cabina.» Prova un brivido di felicità mentre lo dice.
«Posso provare anche a smontare i legni più marci? Posso, pa’?»
«Mi fido di te, so che ce la puoi fare. C’è una scatola degli attrezzi in cabina di comando. Ricordati solo di stare all’occhio.»
Poi, mentre il ragazzo se ne va: «E telefona a tua madre, sai come diventa nervosa».
Michelangelo passa a prendere la cassetta degli attrezzi ed entra sottocoperta con addosso una sensazione piena che lo fa sentire grande e invincibile.
Prima di iniziare telefona a sua madre. Lei risponde dopo appena uno squillo.
«Dico io, come mai non mi hai telefonato ieri sera…»
«Scusa ma’, avevo delle cose da fare.»
«Furbetto, non raccontarmi frottole. Ti sei dimenticato.»
«Eddai ma’, non cominciare.»
«Va bene… Cosa stai facendo?»
«Indovina dove sono.»
«A bordo della vostra barca.»
«Comeee… Te lo ha detto papà.»
«L’ho sentito stamani, mi ha detto che è arrivata.»
«Mamma, è bellissima. Devi venirla a vedere.»
«Certo che vengo. Ma dimmi un po’, e i compiti?»
«Ora ti lascio, devo iniziare a sistemare la mia cabina.»
«Amore, ma non ti manco nemmeno un po’?»
«Vieni a trovarmi, ciao mamma.»
Chiude la telefonata e si infila il cellulare in tasca. Gli dispiace mettere giù bruscamente, ma se non fa così, sua madre lo tiene un’ora al telefono, e adesso non ha proprio tempo da perdere. Però pensa a lei, mentre inizia a portare sul ponte i materassi delle due cuccette e a mettere dentro un sacco coperte e lenzuola; pensa che se i suoi fossero stati ancora assieme, adesso sua madre si occuperebbe di queste cose. Nei giri di pensieri che si affacciano, ragiona pure sul fatto che è strano che le persone si amino e si sposino e poi finiscano per separarsi. «Boh» dice a voce alta, proprio mentre Bullo entra in cabina trotterellando e mollandogli una leccata sulla gamba nuda.
«Adesso che l’hai annusata tutta ti fermi qui con me e mi fai compagnia, intesi?» e intanto gli fa due coccole, poi prende il cacciavite e inizia a rimuovere con attenzione le assi marce delle paratie. Non sono molte, per fortuna, e le viti vengono via con facilità. Ne toglie quattro, crede proprio che siano inservibili, e le accatasta in centro alla cabina, poi corre a chiamare suo padre, perché controlli che il lavoro sia corretto.
Tornano insieme, e trovano Bullo che sta annusando dentro al vuoto creato dalle assi.
«Fallo smettere» dice il padre mentre guarda lo stato delle assi smontate. «Infila la mano e controlla se c’è qualche infiltrazione d’acqua.»
Il ragazzo si inginocchia e sposta il cane, che invece infila tutto il muso e poi una zampa nel vuoto, come se volesse prendere qualcosa.
«Ehi Bullo, la smetti?» gli urla. «Vuoi per caso distruggere tutto?»
Lo prende per il collare e lo spinge via, infila la mano e comincia a saggiare la paratia dietro il legno.
«No, qui… sembra tutto asciutto. Non mi…»
Con le dita tocca qualcosa. “E questo cos’è?” pensa. Quando si ritrae, tiene in mano un libro dalla copertina nera. Si gira verso il padre, che lo guarda con espressione stranita.
«È bagnato?» chiede il padre.
Lui controlla: è asciutto. E si accorge che non è un libro.
«E ’sta umidità da dove arriva allora?» dice perplesso Lorenzo, guardando l’asse che ha in mano. Fruga nella cassetta degli attrezzi, prende una torcia e si china per controllare.
Michelangelo si alza, spiazzato, tutto concentrato su quello che ha in mano.
«No, no, nessun segno di infiltrazioni d’acqua. Meglio. Forse hanno lasciato l’oblò aperto ed è piovuto all’interno» dice il padre alzandosi, poi si mette a picchiettare su tutte le pareti per sentire la consistenza del rivestimento.
«Pensavo peggio, tutto il resto è perfetto. Nella tua cabina ce la caviamo con poco.» Poi guarda il ragazzo, seduto sulla sponda del letto. «Hai già pensato dove vorresti la tv? Io direi qui, contro la parete a quest’altezza, no?»
Michelangelo dice di sì sovrappensiero, perché sta sfogliando quello che è un quaderno e non capisce proprio perché sia finito là dietro. Poi si desta e dice di sì con più convinzione, e aggiunge tutto d’un fiato: «E poi mi servirà un tavolino per fare i compiti e una libreria per i miei libri, e per Internet metteremo una rete nuova o mi attacco a quella dell’ufficio vecchio, cioè io… io voglio vivere sempre qui, pa’».
Il padre lo guarda e ride. «Ehi ragazzino, calma! Decideremo tutto a suo tempo. Ma dovrai combattere con tua madre, lo sai, vero? Anzi, quando pensi di…»
«No, no, no. Quest’estate ho da fare troppe cose. La mamma può venire a trovarmi qui. Io da lei non ci vado.»
«Amore, hai tredici anni, non puoi decidere tu.» Lui diventa rosso in volto, serra i pugni.
«Stai tranquillo adesso. E se vuoi dormire qui, finisci di mettere a posto e pulire tutto» e lo tira a sé, gli fa una carezza e lo bacia in testa. Poi prende le assi, dice che le porta a Roberto il falegname, che qualche tavola di mogano, in officina, dovrebbe esserci.
Mentre Michelangelo si rimette al lavoro, con la coda dell’occhio vede Bullo che cerca di sgattaiolare fuori dalla cabina col quaderno in bocca.
Non gli sarà facile acciuffarlo.