Quando i polli ebbero i denti e la neve cadde nera (bimbi state bene attenti) c’era allora, c’era… c’era…
… un vecchio contadino che aveva tre figliuoli. Quando sentì vicina l’ora della morte li chiamò attorno al letto per l’estremo saluto.
- Figliuoli miei, io non son ricco, ma ho serbato per ciascuno di voi un talismano prezioso. A te, Cassandrino, che sei poeta e il più miserabile, lascio questa borsa logora: ogni volta che v’introdurrai la mano troverai cento scudi. A te, Sansonetto, che sei contadino e avrai da sfamare molti uomini, lascio questa tovaglia sgualcita: ti basterà distenderla in terra o sulla tavola, perché compaiano tante portate per quante persone tu voglia. A te, Oddo, che sei mercante e devi di continuo viaggiare, lascio questo mantello: ti basterà metterlo sulle spalle e reggerlo alle cocche delle estremità, con le braccia tese, per diventare invisibile e farti trasportare all’istante dove tu voglia.
Il buon padre spirò poco dopo: e i tre figli presero piangendo il loro talismano e si separarono.
Cassandrino giunse in città, comperò un palazzo meraviglioso, abiti gioielli, cavalli e prese a condurre la vita del gran signore. Tutti lo dicevano un principe in esilio ed egli stesso cominciò a crederlo; tanto che gli venne il desiderio di far visita al Re. Si vestì degli abiti e dei gioielli più sfolgoranti e si presentò a palazzo.
Una guardia gli fermò il passo.
- Principe, che desiderate?
- Vedere il re.
- Favorite il vostro nome, e se sua Maestà crederà bene, vi riceverà.
- Meno cerimonie! Eccovi cento scudi.
La guardia s’inchinò fino a terra e Cassandrino passò innanzi: alla porta reale quattro alabardieri gli fermarono il passo.
- Principe, dove andate?
- Dal re.
- Non ci si presenta così a Sua Maestà. Dite il vostro nome e se il Re vorrà ricevervi, passerete.
Cassandrino offrì cento scudi ad ogni alabardiere. Ma questi esitavano.
- Non basta? Prendete ancora.
Gli alabardieri, vinti dall’oro, cedettero il passo. Cassandrino diventò amico del Re.
Dopo qualche giorno in tutta la Corte si parlava meravigliati della sua generosità favolosa. Ovunque egli passava distribuiva mance di cento scudi, e servi, cuochi, fantesche, fanti, valletti, s’inchinavano esultanti. La cameriera della principessa, figlia unica del Re, più beneficata di tutti e più scaltra degli altri, cominciò a sospettare qualche magia nel principe generoso e ne parlò alla sua padrona, una sera, togliendole le calze.
- Principessa, la borsa del forestiero è fatata; non vedete com’è piccola: e tuttavia ne trae ogni sera migliaia di scudi… Bisognerebbe prendergliela.
- Bisognerebbe — assentì la principessa — ma come fare?
- Egli siede ogni sera alla vostra sinistra; versategli nel bicchiere un soporifero; s’addormenterà e l’impresa sarà facile.
Così fu fatto. La sera seguente, alle frutta, il principe Cassandrino cominciò ad appisolarsi, poi chinò la testa sulla tovaglia e, fra lo stupore del Re e dei convitati, s’addormentò. Fu portato in una camera del palazzo e disteso sul letto.
L’ancella, vigilante, gli prese la borsa e la portò alla sua padrona. Poi, di comune intesa, confidarono a quattro sgherri il giovine addormentato e lo fecero deporre fuori delle porte, in un campo deserto. All’alba, Cassandrino si svegliò intirizzito e comprese il giuoco che gli era stato fatto.
- Mi vendicherò — egli disse; e lasciò la città e prese la via del paese nativo.
Giunse dal fratello contadino, che lo accolse a braccia aperte e lo fece sedere presso il focolare, tra la moglie ed i figli.
- Fratello mio Cassandrino, e la tua borsa fatata?
- Ohimè! Mi fu rubata e nel modo più fanciullesco —. E raccontò al fratello la disavventura. — Tu potresti aiutarmi a recuperarla.
- Come?
- Prestandomi per qualche tempo la tua tovaglia magica.
Il fratello esitava.
- Te ne prego, non la terrò che pochi giorni, e ti sarà riconsegnata.
Sansonetto diede la tovaglia fatata a Cassandrino, supplicandolo di restituzione sicura. Cassandrino ritornò in città, vestì abiti dimessi, e si presentò a palazzo come cuoco disimpiegato. Il Ministro delle Pietanze lo guardò incredulo e sprezzante e gli assegnò l’ultimo posto nella burocrazia culinaria.
un giorno che il Re dava un pranzo di gala agli ambasciatori del Sultano, Cassandrino disse al capo dei cuochi:
- Lasciate a me solo l’incarico di tutto: vi prometto un pranzo mai più visto.
Il capo sghignazzò, sprezzante:
- Povero sguattero scimunito!
Ma Cassandrino insistette con tanta convinzione che il capo disse:
- Rispondi di tutto sulla tua testa?
- Sulla mia testa.
I cuochi e il loro capo andarono a passeggio, e Cassandrino restò nelle cucine. Pochi minuti prima di mezzogiorno salì nella sala da pranzo e distese la tovaglia miracolosa in un angolo della tavola immensa.
- Tovaglia! Tovaglia! Sia servito un banchetto di cinquecento coperti, tale da sbalordire il Re, la Corte, gli Ambasciatori, tale da confondere tutti i cuochi della terra!
Ed ecco biancheggiare le tovaglie finissime, scintillare i cristalli e le argenterie, e profondersi le pietanze più raffinate, i pasticci dall’architettura fantastica, le cacciagioni prelibate, i pesci rari, i frutti d’oltre mare, i vini delle isole del sole. Giunse l’ora del pranzo e i commensali furono entusiasti. Il Re chiamò il capo dei cuochi e volle onorarlo dei suoi complimenti in presenza di tutta la Corte. Il capo, da quel giorno, affidò a Cassandrino la direzione delle cucine, appropriandosi tutti gli elogi.
Cassandrino saliva ogni giorno, solo, nella sala da pranzo, pochi istanti prima del pasto: si chiudeva a chiave, e ne usciva quasi subito; le mense reali erano imbandite.
La servitù cominciava a sospettarlo di stregoneria.
L’ancella della principessa, più scaltra degli altri, lo spiò un giorno dalla toppa e vide l’apparizione improvvisa delle vivande.
Subito confidò la cosa alla padrona.
- Principessa, l’uomo dalla borsa è ancora nel palazzo sotto le spoglie del capo dei cuochi; e possiede una tovaglia che opera tutto l’incantesimo!
- Bisogna avere quella tovaglia! — disse la principessa.
- L’avremo! — assicurò l’ancella. E la notte seguente forzò lo stipo dove Cassandrino chiudeva la tovaglia e la sostituì con una tovaglia comune.
L’indomani, all’ora di pranzo, Cassandrino distese inutilmente la tovaglia e ripeté invano la formula imperativa. Le tavole restavano deserte.
- Eccomi gabbato una seconda volta! Ma non importa, mi vendicherò!
E uscì dal palazzo e ritornò al paese natìo. Si presentò al fratello mercante, che lo abbracciò e gli domandò delle sue avventure. Cassandrino gli confidò i suoi casi non lieti.
- Mi hanno rubato la borsa e la tovaglia, ma se tu volessi potresti aiutarmi a ricuperare il tutto.
- E come, fratello mio?
- Imprestandomi per qualche giorno il mantello fatato.
Il mercante esitò; il mantello che rendeva invisibili e aboliva le distanze gli era necessario pel suo commercio. Ma Cassandrino tanto supplicò che ottenne il mantello. Col mantello aperto e sorretto alle estremità dalle braccia tese, giunse in un attimo alla città, salì invisibile le scale del palazzo, s’introdusse nelle stanze della principessa: questa dormiva e Cassandrino le coprì il volto con un lembo del mantello.
- Per la virtù di questo mantello, desidero essere trasportati entrambi alle Isole Fortunate.
Il mantello li avvolse come in una nube cupa e vertiginosa e pochi secondi dopo li deponeva in un boschetto di palmizi, nell’isole remote.
La principessa — vedendosi in balia del suo nemico — finse di rassegnarsi all’esilio con lui, ma questo fece per scoprire il segreto della sua potenza; e tanto seppe ingannarlo che gli strappò la confidenza del mantello. Una notte che Cassandrino dormiva col panno prezioso ripiegato sotto la nuca, glielo sottrasse cautamente.
- Per virtù di questo mantello voglio essere trasportata nel palazzo di mio padre il Re.
Cassandrino si svegliò mentre il mantello avvolgeva la principessa in una nube cupa e vertiginosa e la rapiva nell’azzurro verso il regno del padre.
- Eccomi ancora derubato da quella perfida —. E si mise a singhiozzare disperato.
Passò molti mesi nell’isola, mantenendosi di frutti. Un giorno, vagando sulla riva del mare, scoperse un albero dai pomi enormi e vermigli. Ne mangiò uno e lo trovò squisito. Ma sentì tosto per tutto il corpo un prurito inquietante.
Si guardò le mani, le braccia, si specchiò ad una fonte e si vide coperto di squame verdi.
- Oh! povero me! Che cos’è questo?
E si palpava la pelle squammosa come quella d’un serpente. Cassandrino fu tentato da altri pomi gialli che crescevano sopra un albero vicino. Ed ecco un nuovo prurito, e le squamme verdi sparire a poco a poco e la pelle ritornargli bianca per tutta le persona. Allora prese ad alternare le due specie di frutti e si divertiva a vedersi imbiancare e rinverdire.
Dopo vari mesi di esilio passò all’orizzonte una fusta di corsari e Cassandrino tanto s’agitò gridando che quelli si appressarono alla spiaggia e l’accolsero sul legno. Ma prima di lasciare l’isola il giovane raccolse tre pomi dell’una e dell’altra pianta e li mise in tasca.
Fu così rimpatriato e ritornò alla città della principessa. La domenica seguente si travestì da pellegrino, collocò un deschetto sui gradini della chiesa dove la figlia del Re si recava alla messa e vi pose sopra i tre pomi bellissimi che facevano inverdire.
La principessa passò, seguita dall’ancella, e si soffermò ammirata, ma non riconobbe il falso pellegrino. Si rivolse all’ancella: — Tersilla, andate a comperare quelle mele.
La donna s’avvicinò al pellegrino:
- Quanto volete di questi frutti?
- Trecento scudi.
- Avete detto?
- Trecento scudi.
- Siete pazzo? Cento scudi al pomo!
- Se li volete, bene: altrimenti son vane le parole.
La donna ritornò dalla sua padrona.
- Trecento scudi! avete fatto bene a non prenderli.
Ed entrarono in chiesa per la messa.
Ma durante la cerimonia la principessa, ginocchioni ai piedi dell’altare, con gli occhi al cielo e le mani congiunte, non faceva che pensare ai pomi del pellegrino. Appena uscita si fermò ancora ad ammirarli, poi disse all’ancella: — Andate a comperare quei frutti per trecento scudi: mi rifarò con la borsa miracolosa.
La donna s’avvicinò e parlò col pellegrino.
- Perdonate, mia cara, non più trecento, ma seicento scudi voglio dei pomi.
- Vi burlate di me?
- Bisognava prenderli prima. Ora il prezzo è doppio. La donna ritornò dalla sua padrona, poi dal pellegrino
e fece la compera. A mensa i pomi furono presentati sopra un vassoio d’oro e formarono l’ammirazione di tutti. Alle frutta il Re ne prese uno per sé, ne diede uno alla Regina e uno alla principessa e furono trovati deliziosi. Ma i mangiatori non erano giunti a metà che cominciarono a guardarsi irrequieti l’un l’altro e si videro inverdire e coprirsi di squamme serpentine. Avvenne una scena di disperazione e di terrore.
I Reali vennero trasportati nelle loro stanze e la novella terribile si diffuse in tutto il regno.
Furono consultati invano i medici più famosi. Allora si pubblicò un bando: chiunque facesse scomparire la pelle verde alla famiglia reale otteneva la mano della principessa o, se ammogliato, la metà del regno.
Cassandrino lasciò sfollare i medici, i chirurghi, le sortiere, i negromanti, e si presentò dopo qualche giorno a palazzo reale.
Fu ammesso nella stanza degli ammalati.
- Promettete dunque di farci guarire?
- Lo prometto.
- E quando comincerete la cura?
- Anche subito, se volete.
Cassandrino fece denudare il Re fino alla cintola; poi trasse da una cesta un fascio d’ortiche e con le mani inguantate cominciò a flagellare le spalle reali.
- Basta! Basta! — urlava il Re.
- Non ancora, Maestà.
Poi passò alla Regina e ripeté sulle spalle di lei la stessa funzione.
Quando i due Sovrani furono deposti sul letto, semivivi, Cassandrino porse loro i frutti delle isole lontane.
Ed ecco i volti imbiancarsi a poco a poco, le squamme diradarsi, svanire del tutto.
I Reali erano esultanti.
Venne la volta della principessa.
Cassandrino volle restar solo con lei, e si chiuse a chiave nella sua stanza.
Giunsero tosto le urla e i gemiti strazianti. La cura incominciava.
- Aiuto! Basta! Basta!
La cura proseguiva.
- Muoio! Basta! Aiuto! Per carità!
Dopo un’ora Cassandrino uscì dalla sua stanza, lasciando la principessa semiviva.
- E la pelle? — domandarono i Sovrani.
- Gliela imbiancherò domani. Domani ritornerò per ultimare la cura.
Cassandrino andò a trovare un abate, amico suo, e gli disse:
- Domani, verso mezzogiorno, trovati a palazzo reale per confessare la principessa che versa in pericolo di vita.
L’abate promise di trovarvisi.
Il giorno dopo Cassandrino si presentò a palazzo: — Sacra Corona, oggi farò l’ultimo trattamento della principessa, ma siccome potrebbe soccombere…
- Gran Dio! Che dite mai? — urlarono i Sovrani.
- Ho pensato bene di avvisare un abate, per gli ultimi conforti. Sarà qui verso mezzogiorno.
Poi salì dalla principessa: — Oggi vi sottoporrò all’ultimo trattamento, e poiché potrebbe essere fatale, hanno avvisato un abate per la tranquillità della vostra coscienza.
La principessa aveva gli occhi fissi dallo spavento. Sopraggiunse l’abate che fu lasciato solo con l’ammalata e Cassandrino attese in un gabinetto attiguo.
Quando il confessore uscì dalla stanza, Cassandrino disse: — Amico mio, favoriscimi alcuni istanti la tua veste.
- Sarebbe un insulto alla mia divisa.
- Non temere cose sacrileghe. È per ottimo fine. — Cassandrino si vestì della veste sacerdotale e si presentò alla principessa che gemeva nella sua alcova.
- Figliuola mia, temo abbiate dimenticato qualche cosa nella confessione delle vostre colpe… Meditate, cercate ancora… Pensate che siete forse sul punto di presentarvi al giudice supremo.
La principessa allibiva, singhiozzando.
- Vediamo — diceva Cassandrino, imitando la voce dell’amico — non ricordate d’aver sottratto… rubato qualche cosa?
- Ah, padre! — singhiozzò la principessa. — Ho rubato una borsa miracolosa a un principe forestiero.
- Bisogna restituirla! Confidatela a me e gliela farò avere.
La principessa indicò col gesto stanco uno stipo d’argento: e Cassandrino prese la borsa.
- E altro… altro ancora, non ricordate?
- Ah Padre: ho rubato una tovaglia fatata allo stesso forestiero: prendetela. è là, in quell’arca d’avorio.
- E altro, altro ancora?
- Un mantello, Padre! Un mantello incantato, allo stesso forestiero. È là, in quell’armadio di cedro…
E Cassandrino prese il mantello.
- Sta bene — proseguì il falso prete — ora mordete questo pomo: vi gioverà.
La principessa addentò il frutto e subito le squamme verdi si diradarono lentamente e scomparvero del tutto. Allora Cassandrino si tolse la parrucca e la veste.
- Principessa, mi riconoscete?
- Pietà, pietà! perdonatemi d’ogni cosa! Sono già stata punita abbastanza!
I Sovrani entrarono nella camera della figlia e il Re, vedendola risanata, abbracciò il medico.
- Vi offro la mano della principessa: vi spetta di diritto.
- Grazie, Maestà! Sono già fidanzato con una fanciulla del mio paese.
- Vi spetta allora metà del mio regno.
- Grazie, Maestà! Non saprei che farmene! Sono pago di questa borsa vecchia, di questa tovaglia, di questo mantello logoro…
Cassandrino, fattosi invisibile, prese il volo verso il paese natio, restituì ai fratelli i talismani recuperati e, sposata una compaesana, visse beato fra i campi, senza più tentare l’avventura.
Quando in quella che fuggì settimana veritiera si contò tre Giovedì c’era, allora, c’era… c’era…
… un vecchio contadino che viveva in una povera capanna. Questo contadino aveva un figliuolo malaticcio, gobbo, distorto; e per colmo d’ironia questo figliuolo si chiamava Fortunato. Sui diciottenni Fortunato decise di lasciare la capanna paterna e di mettersi alla ventura.
Salutò il padre, che lo benedì piangendo; si fabbricò un paio nuovissimo di grucce scolpite e prese la via di levante, attraversò monti e pianure, patì la fame e la sete, in attesa sempre della fortuna. E la fortuna non veniva.
Un giorno, sul crepuscolo, s’attardò per un sentiero sconosciuto, in una foresta d’abeti.
Camminava in fretta, per giungere prima di notte a qualche capanna dove riparare, e sentiva il cuore balzargli dal terrore alle prime grida degli uccelli notturni, al primo ululato dei lupi.
Ad un tratto, tra la ramaglia e i tronchi diritti, gli parve di scorgere un chiarore tremulo: affrettò il passo sulle stampelle, giunse ad una capanna di legno, picchiò freddoloso.
La porta si aprì: una vecchietta minuscola, curva, canuta, grinzosa, apparve nel vano, al chiarore del focolare.
- Buona donna, mi sono perduto; accoglietemi per carità.
- Vieni avanti, figliuolo mio.
Fortunato entrò nel tepore della capanna.
- Ti farò parte della mia cena; ti accontenterai di quel poco.
- Anche troppo, madre mia.
Si sedettero al desco.
La vecchia pose in mezzo un piattello ed una ciotola minuscola, con una briciola e due chicchi di riso. Fortunato la guardava stupito.
“Non aveva torto” pensava tra sé “a dirmi che mi accontentassi del poco.”
Ma la vecchietta fece un segno imperioso con la mano destra: ed ecco la briciola crescere, crescere, prendere la forma d’un passero, d’un colombo, d’un pollo, d’un tacchino arrostito, dagli appetitosi riflessi d’oro. Ed ecco la ciotola crescere, convertirsi in una zuppiera elegante, dove fumigava una minestra dal soave profumo. Fortunato credeva di sognare.
Mangiò con appetito, meravigliato di sentire sotto i denti quei cibi creati dall’arte magica. E guardava di sottecchi l’ospite misteriosa.
Dopo cena la vecchietta fece sedere Fortunato presso gli alari, sotto la cappa del camino, e gli si accoccolò di contro.
- Figliuolo, raccontami la tua storia.
Fortunato le disse delle sue vicende e del suo vano pellegrinare in cerca di fortuna.
- Aiutatemi voi, che dovete essere una fata potente.
- Io non sono una fata potente e i miei incantesimi sono pochi… Ti gioverò confidandoti un segreto che tutti ignorano. Ti indicherò la via che conduce al castello dei desideri…
All’alba del domani la vecchietta accompagnò Fortunato attraverso i boschi, si fermò ad un crocevia, e gli indicò la strada da scegliere.
- Cammina tre giorni e tre notti senza voltarti indietro, qualunque cosa tu senta. Da secoli nessuno osa affrontare il mistero di quelle mura. Picchierai con questa pietra alla gran porta, che s’aprirà per incanto. Attraverserai cortili e stanze, androni e corridoi. Nell’ultima stanza troverai un vecchio addormentato in piedi, con il braccio teso, recante fra le dita un cero verde; è quello il talismano che tu devi carpire e che esaudirà ogni tuo desiderio. Bada che il castello è pieno di frodi magiche e di orrori diabolici. Ma il negromante, i draghi, gli spiriti si addormenteranno dal mezzogiorno al tocco. Se tu ti fermassi scoccato il tocco, saresti perduto…
Fortunato prese la pietra, ringraziò la vecchia e proseguì la strada sulle sue stampelle. Verso sera si sentì chiamare alle spalle:
- Fortunato! Fortunato! Fortunato!
Non ricordò l’avvertimento della vecchia e si voltò. Ed eccolo ricondotto d’improvviso al punto donde era partito.
- Pazienza, ricomincerò.
- Mi ammazzano! Aiuto! Giovine, per carità!
Si voltò impietosito, ed eccolo ricondotto al punto di partenza. Ebbe un moto d’ira, poi riprese pazientemente il cammino sulle sue stampelle.
Camminò due giorni: al tramonto del secondo giorno sentì un fragore d’armi, uno scalpitìo di cavalli; si voltò impaurito ed eccolo ricondotto al crocevia di partenza.
— Sono inganni che mi tende il negromante; ma saprò come fare.
E si turò le orecchie con batuffoli di stoppa e proseguì tranquillo la strada, sordo ai richiami. Dopo tre giorni giunse al castello disabitato. Attese lo scoccare delle dodici e picchiò con la pietra. La porta immensa, scolpita a disegni favolosi, s’aprì per incanto.
Fortunato indietreggiò, inorridito. Aveva innanzi un cortile pieno di salamandre gigantesche, di rospi, di vipere, di scorpioni colossali. Ma tutti dormivano e Fortunato si fece animo, passò con le stampelle tra i dorsi viscidi, le code, le corazze, i tentacoli inerti. Attraversò cortili, androni, corridoi, giunse ad una sala tutta coperta di monete d’argento: si chinò e se ne empì le tasche. Giunse ad una seconda sala piena di monete d’oro: si chinò, gettò le monete d’argento e raccolse le monete d’oro. Giunse ad una terza sala, ingombra di alte piramidi di gemme: vuotò le tasche dell’oro e le empì di brillanti. Attraversò altri cortili, altri corridoi, giunse in un’ultima sala immensa ed oscura.
Il negromante decrepito, dalla barba lunga e candida, dormiva in piedi, recando nella mano protesa il cero verde.
Fortunato lo guardava stupito, guardava stupito le mille cose del laboratorio diabolico. Poi si sovvenne del tempo che passava, tolse il cero di mano al negromante,
ritornò indietro di corsa, si smarrì pei corridoi… Il tocco doveva essere imminente e s’egli non usciva prima, era perduto… Ritrovò finalmente le sale dei diamanti, dell’oro, dell’argento, attraversò il cortile delle belve addormentate, passò colle sue stampelle tra i dorsi e le code viscide, raggiunse la porta immensa. I battenti si rinchiusero alle sue spalle, con fragore sordo.
Il tocco suonò nell’istante.
Un clamore spaventoso s’alzò dietro le mura del castello: gracidii, urla roche e furenti; erano i mostri guardiani che s’accorgevano del furto. Ma Fortunato era salvo.
Subito accese il cero e comandò:
- Mi sparisca la gobba, mi si raddrizzino le gambe!
E la gobba disparve e le gambe si raddrizzarono. Fortunato gettò via le grucce, spense il cero, perché consumava rapidamente, e si diresse alla città. Giunse in città a notte fatta, scelse un’altura spaziosa e vi comandò un palazzo più bello di quello reale.
All’alba i cittadini guardarono trasecolati l’edificio meraviglioso, le sue torri, le logge, le scalee, i terrazzi, gli orti pensili fioriti in una sola notte. Fortunato stava ad un balcone, vestito da gran signore.
Il Re, ch’era un tiranno malvagio, arse di sdegno e d’invidia per l’ignoto forestiero e gli mandò un valletto intimandogli di recarsi a Corte.
- Direte al Re che non m’inchino a nessuno. Se crede bene venga lui da me.
Il Re fece decapitare il valletto che ritornò con tale risposta, e giurò odio eterno al forestiero misterioso.
Fortunato viveva la vita del gran signore, eclissando con lo sfoggio delle vesti, delle cavalcature, dei levrieri la magnificenza della Corte Reale.
Gli bastava accendere pochi secondi il cero verde e subito ogni suo desiderio era appagato. Ma intanto il cero s’accorciava sempre più e Fortunato cominciava ad inquietarsi e a diradare i comandi. E non era felice. Sentiva che una cosa gli mancava e non sapeva quale.
Un giorno, cavalcando per la città, vide ad una loggia della reggia la figlia unica del Re. La principessa sembrava sorridergli benevola, ma era circondata dalle dame e guardata a vista dai paggi e dai cavalieri.
Il giorno dopo Fortunato passò ancora sotto la loggia e rivide la principessa fra le sue donne accennargli un sorriso compiacente.
Fortunato s’innamorò perdutamente di lei. Una sera di plenilunio egli stava sul più alto dei suoi giardini pensili, appoggiato ai balaustri che dominavano la città.
- Forse il cero potrebbe appagarmi anche in questo…
E meditò a lungo come esprimere il suo desiderio.
- Cero, bel cero, voglio che la principessa sia fatta invisibile e venga trasportata all’istante nel mio giardino.
Fortunato attese col cuore che gli palpitava forte…
Ed ecco apparire la figlia del Re, vestita di una tunica bianca e con le chiome scomposte.
- Aiuto! Aiuto! Dove sono? Chi siete voi?
La principessa tremava, folle di terrore. Si era sentita sollevare dal suo letto, trasportare a volo attraverso lo spazio. Fortunato s’inginocchiò, baciandole il lembo della tunica.
- Sono il cavaliere che passa ogni giorno sotto i vostri balconi, principessa, e se vi feci trasportare qui, non è con fine malvagio, ma per potervi umilmente parlare —. E Fortunato le dichiarò il suo amore e le disse che voleva presentarsi al Re per chiederla in isposa.
- Non fate questo! Mio padre vi odia perché siete più potente di lui. Se vi presentate vi farebbe uccidere all’istante.
Dopo quella sera Fortunato faceva convenire sovente sui suoi terrazzi la principessa Nazzarena.
Essa appariva al richiamo dello sposo, non più pallida e tremante, ma sorridendo, improvvisa come un’apparizione celeste. Passeggiavano sotto i palmizi, fra le rose e i gelsomini, e guardavano la città addormentata. All’alba Fortunato comandava al cero verde di trasportare la principessa nelle sue stanze e questa si ritrovava, pochi attimi dopo, nel suo letto d’alabastro. ma un’ancella malevola si era accorta di queste assenze notturne e riferì la cosa al Re.
- Se non è vero ti faccio appiccare — aveva detto il Sovrano minaccioso.
- Sacra Corona, potete accertarcene con gli occhi vostri.
La sera dopo il Re si nascose dietro i cortinaggi, spiando la figlia addormentata.
Ed ecco, verso la mezzanotte, una voce remotissima che dice: — Cero, bel cero, portami Nazzarena!
Ed ecco la figlia farsi invisibile e la finestra aprirsi per incantesimo. Il Re era furente.
E quando all’alba Nazzarena riapparve dormendo nel suo letto, il padre l’afferrò per le trecce d’oro:
- Dove sei stata, disgraziata?
- Nel mio letto. Ho dormito tutta notte, padre mio.
Il Re si calmò.
- Allora si tratta di un malefizio che tu stessa ignori e che saprò bene scoprire.
Si consigliò con un negromante.
Questi consultò invano la sua scienza profonda.
- Non c’è che un solo espediente, Sacra Corona. Appendete alle vesti della principessa Nazzarena una borsa forata piena di farina: all’alba scopriremo la traccia del suo cammino.
Con l’aiuto della fantesca fu appesa alla tunica notturna della principessa la borsa forata piena di farina. All’alba il Re armò tutto il suo esercito e con la spada in pugno seguì la sottile traccia candida… E la traccia lo condusse al palazzo del forestiero misterioso.
Irruppe nelle stanze di Fortunato che dormiva. Prima che questi potesse ricorrere al cero salvatore, lo fece legare, trasportare al palazzo reale, rinchiudere nei sotterranei, per decretarne la pena.
Fu condannato a morte e il giorno del supplizio tutto il popolo s’accalcava sulla gran piazza. Ai balconi del palazzo reale stava tutta la Corte, col Re, la Regina, la principessa pallida e disperata.
Fortunato salì tranquillo il palco del supplizio.
Il carnefice gli disse:
- Com’è usanza nel regno, potete esprimere a Sua Maestà un ultimo desiderio.
- Chiedo soltanto mi sia recato un piccolo cero verde, che ho dimenticato a palazzo, in un cofano d’avorio. È un caro ricordo e vorrei baciarlo prima di morire.
- Gli sia concesso — disse il Re.
Un valletto ritornò col cofano d’avorio e, fra l’attenzione di tutto il popolo, Fortunato trasse il cero verde, lo accese mormorando:
- Cero, bel cero, che tutti i qui presenti, che tutti i sudditi del regno, eccezion fatta della principessa, sprofondino in terra fino al mento.
Ed ecco la folla, la Corte, il Re, la regina, inabissarsi d’improvviso.
La piazza e le vie della città apparivano coperte di teste che stralunavano gli occhi e invocavano aiuto. Fortunato distinse fra le innumerevoli teste brune, bionde, calve, canute, la testa coronata del Re che rotava gli occhi a destra e a sinistra e ordinava imperiosamente d’essere dissepolto. Ma in tutto il regno non era rimasto in piedi un suddito solo!
Fortunato prese Nazzarena al braccio e s’appressò alla testa regale.
- Maestà, ho l’onore di chiedervi la mano della principessa Nazzarena.
Il Re guardò Fortunato con occhi irosi e non fece motto.
- Se tacete, partirò oggi stesso con lei e lascerò voi e i vostri sudditi sepolti fino al mento.
Il Re guardò Fortunato, lo vide giovine e bello, pensò che era più potente di lui, e che sarebbe stato un buon successore.
- Maestà, vi chiedo la mano di Nazzarena.
- Vi sia concessa — sospirò il re.
- Parola di Re?
- parola di Re.
Fortunato comandò al cero il disseppellimento di tutti e tutti risorsero per incanto…
E nel giorno stesso, invece della condanna feroce, furono celebrate le nozze.