La notte era umida e fredda, ma Libero il freddo non lo sentiva proprio: aveva bevuto abbondantemente ed era ancora vestito da babbo Natale, con le imbottiture che gli facevano da cuscino intorno alla vita e il cappello rosso, in testa, un po’ di traverso. Stava pensando che era stata una bella serata e che qualche volta la vita riserva dei momenti piacevoli.
Ripensava alla sua infanzia, alla casettina dove abitava da bambino, proprio dietro la Chiesa del paese, a tutto quel suonar di campane e alle bestemmie che suo padre, un operaio, comunista della vecchia guardia, ateo e mangiapreti, cominciava a sgranare, quasi fossero un rosario, appena il prete cominciava con la sua musica.
Anche la mamma, un’attiva comunista come il marito, aveva inculcato nell’unico figlio, biondo e paffuto, quelle idee di libertà che lui, adesso, si portava nel cuore. Da bambino si era sentito un po’ diverso: i suoi non lo avevano fatto battezzare e non portava un nome di santo; era stato un po’ difficile spiegare ad un bambino che per lui non ci sarebbe stata una festa per la prima comunione e che, durante l’ora di religione a scuola, doveva uscire per annoiarsi a sfogliar libri per un’ora in sala dei professori.
Ma, crescendo ateo e comunista, si era reso conto che i suoi avevano fatto bene e che non sono le regole dei tonaconi, a questo mondo, che possono fare tutti ugualmente liberi, felici e uguali.
Era anche grato ai suoi genitori per averlo fatto andare a scuola di musica; da principio si era annoiato da morire, con il solfeggio, poi, appena aveva preso in mano uno strumento, tutto era cambiato: la passione lo aveva preso e, affascinato dalla bravura del suo maestro, si era fissato nel voler suonare il sassofono, come lui. L’aveva spuntata, anche in famiglia: l’acquisto di un sax non era proprio una spesa modesta, ma i suoi pensarono che fosse il giusto premio per tanta buona volontà. Non divenne, purtroppo, abile e famoso come il suo maestro, che aveva cominciato anche a incidere CD per una nota casa discografica, ma il suo ‘mestiere’ lo aveva imparato bene.
A tutto questo pensava Libero, rientrando lemme, lemme, verso casa. Gli anni erano passati, le difficoltà dell’adolescenza superate; la mamma viveva ancora in quella casettina dietro la chiesa, lui si era laureato in ingegneria, aveva trovato un discreto posto di lavoro nella stessa città universitaria e si occupava di sviluppo di software per la robotica; il sassofono era ancora e sempre il suo amico fedele.
Aveva ancora i capelli biondi, come da bambino, ma ora, a trent’anni, gli erano diventati un po’ più rossicci; erano sempre folti e portava degli occhialoni da vista con le lenti leggermente brunite; si era fatto crescere la barba, ma era una cosa momentanea, bastavano poche settimane per avere un bel barbone rosso carota, poi se lo tagliava, e scopriva di nuovo quella pelle bianca, bianca da bimbo.
In quel momento, pensava, la barba gli faceva proprio comodo, un po’ perché lo proteggeva dal freddo, un po’ perché lo aiutava nel suo travestimento da Babbo Natale.
Nonostante il suo ateismo convinto, e quindi l’assoluta impossibilità di aderire alle celebrazioni che il periodo dell’anno imponeva, Libero era nato e cresciuto di indole mite e con una particolare attenzione verso i deboli, i bambini e i vecchi. Quando c’era un’iniziativa benefica da prendere, era sempre in prima linea. Durante il Natale, lui e qualche suo nuovo amico con la passione della musica si improvvisavano gruppo musicale per andare ad allietare i vecchi nelle case di riposo o i bambini lungo degenti nell’ospedale cittadino; partecipava poi con la banda a tutte le iniziative gratuite e benefiche che potevano dare un minimo di gioia a chi, né a Natale né mai, la gioia sa cosa sia.
Quella sera tornava, appunto, da un concertino tenuto per i vecchi dell’ospizio cittadino; avevano mangiato insieme a loro, li avevano divertiti e si erano divertiti; oltre al repertorio natalizio, avevano cercato di improvvisare dei motivetti che qualche vecchietto ricordava e che aveva accennato per loro canticchiandolo a bassa voce, il tutto fra le risate e i racconti di storie di Natali passati, qualche bicchiere di vino e una manciata di dolci, tutta roba che avevano portato in regalo lui e i suoi amici, s’intende.
Libero faceva oscillare la custodia del sassofono e camminava sulla pavimentazione sconnessa della stradetta; pensava a quei granelli di felicità o, almeno, di oblio che da anni dava a tanti sconosciuti, e si sentiva in pace col mondo; le scarpe, grosse, lasciavano per terra impronte decise sulla pietra bagnata, non capiva se per un po’ di pioggerellina o per la nebbia che avvolgeva tutto.
Dondolava anche un po’ la testa, canticchiando muto una canzoncina che gli era rimasta in mente, l’ultima che avevano suonato, una cosettina orecchiabile degli anni trenta a cui avrebbe voluto dare un titolo.
Quando passò vicino alla chiesetta alzò un attimo la testa, così, per caso. Era stata sempre lì, da quattro o cinquecento anni, e da oltre un secolo era stata sconsacrata. “Bene, pensò Libero, dovrebbero farlo con tutte. Ficcare in testa alla gente tutta quell’ovatta e tutta quella paura di un omone grande e grosso colla barba bianca…Razza di stupidi!”
Da una delle finestrelle strette, strette che si aprivano sul retro della chiesina gli parve all’improvviso di vedere un bagliore. “Eccolo che arriva, pensò con dileggio, è quasi mezzanotte…O forse è più tardi.” Non ce la faceva a guardare l’orologio, l’imbottitura del vestito da Babbo Natale glielo impediva. Il lampo di luce comparve di nuovo; ora era più vicino.
“Fammi un po’ vedere” pensò, scanzonato; in due passi fu proprio sotto la finestrella ma ora non vedeva più nulla; poggiò con cura la custodia del sassofono contro il muro e, tirandosi su con le mani e arrampicandosi su un paio di pietre sconnesse del muro, riuscì ad arrivare a filo della finestra. Vide un bagliore, poi un bambin Gesù che gli sembrava tremolare e muoversi.
Si lasciò scivolare giù. “Ho bevuto troppo” pensò; non capiva. Cosa stava vedendo? Si ritirò su, e lo vide di nuovo, il bambino: ondeggiava, era illuminato, stava venendo, piano, piano, addirittura verso la finestra, proprio verso Libero!
Dovette scendere, aveva di nuovo perso la presa e si era graffiato le mani, ma si tirò su di nuovo, appoggiandosi questa volta alla custodia del sax: quando fece capolino alla finestra il bambinello era a pochi metri da lui, oltre il vetro spesso e distorcente della finestra, ed una luce dorata lo illuminava tutto. Preso da un’improvvisa paura, si buttò giù di colpo. “Ma che sta succedendo, pensò, e proprio a me?”. Un brivido di freddo gli passò sulla pelle.
“Shhh, hai sentito?” fece una voce che sembrava provenire da oltre la finestra, ma che non era certo quella di un bambino. “Sentito cosa? Non ho sentito niente. Stai zitto, se no qui ci scoprono. Il quadro tiralo dalla tua parte, ancora un po’ e ci siamo.”
Libero riprese il controllo della situazione; la nebbia che aveva in testa per il vino e gli ammazzacaffè si dileguò in un attimo; si spostò in un angolo lontano dalla chiesa, al riparo di un muro di una casa e, senza perdere di vista la scena, con il cellulare chiamò il 112. Al carabiniere assonnato che gli rispose descrisse la scena: ci dovevano essere dei ladri al lavoro nella chiesetta sconsacrata; lasciò le sue generalità e stette ad aspettare. Dopo pochi minuti alcuni carabinieri, a piedi, si fecero vicini alla chiesa; vide poi una macchina scura, con solo le luci di posizione accese, che si avvicinava quasi casualmente ad un furgoncino bianco che intravedeva in lontananza, vicino all’ingresso della piazza.
Fecero irruzione, sentì il trambusto poi Libero vide sfilare fuori un paio di individui saldamente stretti dalle braccia di alcuni carabinieri. Decise allora di farsi avanti e di presentarsi a due graduati che erano rimasti sulla porta della chiesa. “Salve, sono io che vi ho chiamato, cosa è successo?” “Lei, lei è Libero?” “Sì” “Stavano cercando di sottrarre un quadro della Natività, qui nella chiesa c’è una mostra organizzata dalla Soprintendenza, sembra che il sistema di allarme…” Ma aveva già detto anche troppo. “Mi favorisca i documenti” fece il carabiniere, cambiando tono.
Libero, impacciato dal suo vestito, trovò il portafogli e consegnò la carta di identità al militare.
“Certo, Babbo Natale che salva Gesù Bambino ancora non l’avevo visto…”, mormorò l’appuntato, restituendogli il documento.
J. Iccapot
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