C’erano una volta, nel paese di Fiorano, due bambini:
Mirò e Mari. Fratello e sorella, lui di nove e lei di sette anni, trascorrevano felici le giornate tra scuola e casa.
A scuola ritrovavano gli allegri compagni di giochi, le premurose maestre, gli efficienti bidelli, la severa direttrice, mentre a casa ad aspettarli c’erano sempre la loro mamma, alta e snella, e il loro papà, con la barba e i capelli a spazzola.
Il papà, in verità, era spesso assente per motivi di lavoro, visto che era un rappresentante di piastrelle, e i due fratelli restavano con la mamma che, invece, lavorava part-time in una piccola rosticceria.
Era un’ottima cuoca e a mezzogiorno Mirò e Mari non vedevano l’ora di fare ritorno a casa per assaggiare le deliziose pietanze da lei cucinate.
L’unico problema era che lei, a casa cosi come sul lavoro, sfornava teglie e teglie di manicaretti di ogni genere e ogni volta sempre di più, sempre di più, sempre di più.
Questo non perché i suoi familiari avessero una fame da lupi.
Anzi, i due ragazzi non mangiavano mai grandi quantità di roba, giusto il necessario per crescere belli, sani ed energici.
Quando sentivano la pancia piena, sapevano da soli che era il momento di smettere senza dover esagerare.
Mari e Mirò d’altronde, adoravano la loro mamma e non volevano dispiacerle.
Quindi spizzicavano un po’ di tutto, assaggiando questo e quello per abituarsi ad apprezzare sapori nuovi e diversi, ma poi, quando non ce la facevano più, recitavano in coro:
“Satolli, siamo satolli
saremmo dei folli
a mangiare
fino a scoppiare!”.
Allora la mamma, sorridendo ai suoi due bei figlioli, rispondeva:
“Basta, basta
l’eccesso guasta!
O pancia mia,
‘sta roba non si può buttare via!”.
E cosi, incredibilmente, lei trangugiava tutti i rimasugli nei piatti e nelle pentole.
La stessa scena si ripeteva in pizzeria o al ristorante.
Anche là, dopo aver ordinato antipasti di affettati misti, tortelloni burro e salvia, carne all’aceto balsamico con scaglie di Parmigiano Reggiano, verdure grigliate, dolce mascarpone e frutta per finire, a neanche metà del pasto i ragazzini recitavano:
“Satolli, siamo satolli
saremmo dei folli
a mangiare
fino a scoppiare!”.
E la madre a sua volta ribatteva:
“Basta, basta
l’eccesso guasta!
O pancia mia,
‘sta roba non si può buttare via!”.
E con grande scrupolosità, anche perché alla fine c’era il conto da pagare, si metteva a ripulire i piatti, facendo addirittura scarpetta con il pane di Verica contenuto nel cestino al centro del tavolo.
Era ancora peggio, poi, quando andavano al fast food, dove tutto era BIG: BIG il panino imbottito che in inglese, come Mirò e Mari avevano studiato a scuola, si dice hamburger; BIG il drink; BIG le chips, BIG l’ice-cream.
Inutile dire che cosa potevano mangiare di tutta quella roba i due fratelli.
Insomma, facile a dirsi che volta dopo volta, la donna diventò sempre più grassa.
Non riusciva neppure più a spostarsi bene per la casa perché s’incastrava in mezzo alle porte.
Ma lei sembrava non farci caso e la vita trascorreva sempre nello stesso modo.
Una mattina i due bimbi le chiesero di organizzare un picnic alle Salse di Nirano.
Ne fu entusiasta e iniziò subito a preparare il paniere.
A mezzogiorno andarono al parco, dove la mamma cominciò a tirare fuori vassoi su vassoi.
Per l’occasione erano state anche acquistate bottigliette di bibite gassate, perfette con quel loro sapore dolce e zuccherino e con quelle mille piccole bollicine frizzantine.
Era davvero un picnic coi fiocchi.
Il sole splendeva alto nel cielo e candide nuvole erano trascinate da una leggera brezza primaverile.
“Come sono soffici!” Sospirò ad un tratto la signora con una punta di nostalgia nella voce.
“Vanno tranquille, ovunque, libere, senza alcun ostacolo…”
Quello che successe in seguito nessuno mai riuscì a spiegarlo: la mamma, tra un boccone e l’altro, cominciò a gonfiarsi a dismisura, come un grande pallone.
Mari e Mirò la fissavano esterrefatti.
Ad un tratto, poi, prese lentamente ad alzarsi da terra e, prima che fosse troppo tardi, riuscì ad infilare i piedi nei manici del cestone, esortando i figli a saltarci dentro.
I due ubbidirono e in quattro e quattr’otto si ritrovarono a volare con la mamma mongolfiera nell’azzurro cielo pomeridiano.
Fu così che iniziò un viaggio fantastico!
Sorvolarono paesi e città, colline e pianure, fiumi e torrenti. La donna era al settimo cielo e i bambini erano felici nel vederla così.
Giunse quindi la notte, e mentre vegliava sui propri figli, che dormivano accoccolati tra le braccia l’uno dell’altra, la mamma mongolfiera si saziava della luce della luna e delle stelle. Ogni cosa filava liscia quando, poco prima dell’alba, il cielo cominciò ad oscurarsi in modo preoccupante.
All’orizzonte, infatti, era comparsa una gigantesca nube nera, che veloce e minacciosa avanzava inghiottendo tutto.
Poi iniziò a scendere una sottile acquerugiola, che si trasformò rapidamente in un terribile acquazzone.
Le folate di vento diventarono all’improvviso indomabili e la mongolfiera fu sballottata sopra e sotto, a destra e a sinistra.
I ragazzini si svegliarono e, spaventati, si aggrapparono saldamente alle gambe della madre, giusto un attimo prima che il cesto si capovolgesse, svuotandosi di ogni cosa e precipitando nel vuoto.
Scossa da quella situazione, che oltretutto andava peggiorando, la mamma mongolfiera capì che era giunto il momento di fare qualcosa.
Prese così a muoversi, lottando disperatamente e tenendo duro anche quando sentiva di non potercela fare: doveva assolutamente portare in salvo i suoi figlioli!
E finalmente, in quella furiosa tormenta, scorse uno spiraglio di luce. Era un puntino luccicante, lontano, quasi impercettibile: era Venere, la “Stella del mattino”.
Fissandola, piena di speranza, raddoppiò i suoi sforzi e spinse tutta se stessa verso quella direzione.
Cosa realmente successe durante quel volo nessuno seppe mai dirlo con precisione.
Quel che è noto, però, è che l’indomani mattina furono ritrovati, distesi sul prato del Castello di Spezzano, due bambini che dormivano avvinghiati alle gambe di una donna, alta e snella.
La gente, che curiosa era accorsa a vedere, non riusciva a capire quella singolare scena.
Il vocio, a poco a poco, risvegliò i tre, che sulle prime si spaventarono alquanto.
Dopo un attimo, tuttavia, madre e figli si scambiarono un’occhiata e scoppiarono a ridere e, prima che qualcuno potesse chiedere qualcosa, dissero:
“Basta, basta l’eccesso guasta!”.
Scritta da: classe 4a B (A/S 2013/14) – Scuola Primaria “Enzo Ferrari” – Fiorano Modenese (MO)
Favola tratta da: Le favole tra Secchia e Panaro – Il territorio modenese visto con gli occhi dei bambini.