Mio figlio Olli non si fa vivo. Sono ormai ore che pesca.
Mio figlio, quando siamo al mare, pesca. Quando proprio non pesca, è perché non lo può fare: o c’è troppo mare e l’amo gli batte sugli scogli, o ha finito le esche e il negozio è chiuso, o c’è il sole a picco e allora glielo vieto io per paura che si ustioni.
Quando non pesca, generalmente mio figlio fa due cose: o legge o disegna. Gli piace anche molto giocare a pallone, se non fosse per quel- l’unico inconveniente: non si può giocare da soli.
E raccogliere quella decina di compagni che serve è un’impresa: uno non può, uno abita lontano, uno deve andare a tedesco, a judo, a chitarra, un altro ha già i suoi amici…
Olli non ce la fa. Al ventesimo tentativo mi dice:
– Non pensi che non gliene importi niente a nessuno di giocare con me?
Cerco inutilmente di dargli torto, ma il problema è che la penso come lui. Però, adesso che arriva, lo strozzo. Non può stare sul molo tutto il giorno! Ma Olli non arriva. Mi guardo intorno: tutti che giocano. Tutti felici. Tutti che fanno il bagno, corrono, scherzano. Olli no. Olli deve pescare, lui! Ma tutti chi? Saranno quattro, forse cinque ragazzi che giocano, e mi sembrano anche piuttosto annoiati.
Olli torna che sono quasi le due del pomeriggio, un sole a picco e niente vento.
Lo vedo comparire all’orizzonte, una figurina magra in controluce con la sacca sulla spalla e il secchio che gli sballonzola al ginocchio. Cotto di sole, raggiante: con sé porta otto pesci, tra cui una sogliola, due triglie e uno strano pesce a righe non meglio identificato.