“La Cantastorie” ci propone una fiaba dall’Italia: “Bellinda e il mostro”.
Ascolta la storia raccontata dell’attrice Martina Folena e con le musiche di Mario Incudine.
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C’era una volta un mercante di Livorno, padre di tre figlie a nome Assunta, Carolina e Bellinda. Era ricco, e le tre figlie le aveva avvezzate che non mancasse loro niente. Erano belle tutte e tre, ma la più piccola era d’una tale bellezza che le avevano dato quel nome di Bellinda. E non solo era bella, ma buona e modesta ed assennata, quanto le sorelle erano superbe, caparbie e dispettose, e per di più sempre cariche d’invidia. Quando furono più grandi, andavano i mercanti più ricchi della città a chiederle per spose, ma Assunta e Carolina tutte sprezzanti li mandavano via dicendo: “Noi un mercante non lo sposeremo mai”. Bellinda invece rispondeva con buone maniere: “Sposare io non posso perché sono ancora troppo ragazza. Quando sarò più grande, se ne potrà riparlare”. Ma dice il proverbio: ‘Finché ci sono denti in bocca, non si sa quel che ci tocca’.
Ecco che al padre successe di perdere un bastimento con tutte le sue mercanzie e in poco tempo andò in rovina. Di tante ricchezze che aveva, non gli rimase che una casetta in campagna, e se volle tirare a campare alla meglio, gli toccò d’andarcisi a ritirare con tutta la famiglia, e a lavorare la terra come un contadino. Figuratevi le boccacce che fecero le due figlie maggiori quando intesero che dovevano andare a far quella vita. “No, padre mio,” dissero, “alla vigna noi non ci veniamo; restiamo qui in città. Graziaddio, abbiamo dei gran signori che vogliono prenderci per spose”. Ma sì, valli a rincorrere i signori! Quando sentirono che erano rimaste al verde, se la squagliarono tutti quanti. Anzi, andavano dicendo: “Gli sta bene! Così impareranno come si sta al mondo. Abbasseranno un pò la cresta”. Però, quanto godevano a vedere Assunta e Carolina in miseria, tanto erano spiacenti per quella povera Bellinda, che non aveva mai arricciato il naso per nessuno. Anzi, due o tre giovinotti andarono a chiederla in sposa, bella com’era e senza un soldo. Ma lei non voleva saperne, perché il suo pensiero era d’aiutare il padre, e ora non poteva abbandonarlo. Infatti, alla vigna era lei ad alzarsi di buonora, a far le cose di casa, a preparare il pranzo alle sorelle e al padre. Le sorelle invece s’alzavano alle dieci e non muovevano un dito; anzi ce l’avevano sempre con lei quella villana, come la chiamavano, che s’era subito abituata a quella vita da cani.
Un giorno, al padre arriva una lettera che diceva che a Livorno era arrivato il suo bastimento che si credeva perso, con una parte del carico che s’era salvato. Le sorelle più grandi, già pensando che tra poco sarebbero tornate in città e sarebbe finita la miseria, quasi diventarono pazze dalla gioia. Il mercante disse: “Io ora parto per Livorno per vedere di recuperare quel che mi spetta. Cosa volete che vi porti in regalo?” Dice l’Assunta: “Io voglio un bel vestito di seta color d’aria” E Carolina: “A me invece portatemene uno color di pesca” Bellinda invece stava zitta e non chiedeva niente. Il padre dovette domandarle ancora, e lei disse: “Non è il momento di far tante spese. Portatemi una rosa, e sarò contenta”. Le sorelle la presero in giro, ma lei non se ne curò.
Il padre andò a Livorno, ma quando stava per metter le mani sopra alla sua mercanzia, saltarono fuori altri mercanti, a dimostrare che lui era indebitato con loro e quindi quella roba non gli apparteneva. Dopo molte discussioni, il povero vecchio restò con un pugno di mosche. Ma non voleva deludere le sue figlie, e con quei pochi quattrini che gli rimanevano comprò il vestito color aria per Assunta e il vestito color pesca per Carolina. Poi non gli era rimasto neanche un soldo e pensò che tanto la rosa per Bellinda era così poca cosa, che comprarla o no non cambiava nulla.
Così, s’avviò verso la sua vigna. Cammina cammina, venne notte: s’addentrò in un bosco e perse la strada. Nevicava, tirava vento: una cosa da morire. Il mercante si ricoverò sotto un albero, aspettandosi da un momento all’altro d’essere sbranato dai lupi, che già sentiva ululare da ogni parte. Mentre stava così, voltando gli occhi, scorse un lume lontano. S’avvicinò e vide un bel palazzo illuminato. Il mercante entrò. Non c’era anima viva; gira di qua, gira di là: nessuno. C’era un camino acceso: zuppo fradicio com’era, il mercante ci si scaldò, e pensava: “Adesso qualcheduno si farà avanti”. Ma aspetta, aspetta, non si faceva viva un’anima. Il mercante vide una tavola apparecchiata con ogni sorta di grazia di Dio, e si mise a mangiare. Poi prese il lume, passò in un’altra camera dov’era un bel letto ben rifatto, si spogliò e andò a dormire. […]
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