L’araldo a cavallo giunse in vista della meta: un villaggio a nord che distava solo un’ora dalla capitale della Cormundia, il piccolo regno governato da Molooc con il titolo di Granservente. La strada era polverosa e correva tra siepi di rovi che avrebbero dovuto tenere lontani gli animali selvatici. Ma daini e cinghiali non si facevano fermare. Bastava una notte perché un campo venisse devastato. Al mattino, i coloni lanciavano maledizioni silenziose sia alle bestiacce, sia alle leggi di Molooc che proibivano la caccia.
Tutto quello che stava oltre la palizzata del villaggio apparteneva a lui, dai frutti del bosco ai pesci del fiume, dai fagiani ai cervi. Chi veniva sorpreso a raccogliere funghi e castagne, oppure a tendere trappole, veniva arrestato. Per punizione, subiva l’amputazione della mano sinistra. Poi, sulla guancia, con il ferro rovente, gli veniva impresso il segno della colpa, una T.
T come Tritan, il dio imposto ai suoi vassalli dal signore delle terre, il Granservente Molooc.
Anche l’araldo portava il suo simbolo sulla giubba. Anche l’araldo gli apparteneva corpo e anima.
Il giovane fece ruotare la testa per valutare di quanto fossero peggiorate le condizioni del villaggio. La palizzata era cadente e invasa dai rampicanti, il sentiero tutto erbacce e buche. Le capanne erano deteriorate e rattoppate. Avevano lo stesso colore dei mucchi di rifiuti che si vedevano in lontananza, sui quali i bambini andavano a caccia di bisce e di topi. E simili alle capanne e alla spazzatura erano gli indumenti degli abitanti e gli abitanti stessi, smagriti e di colorito malsano.
L’araldo non s’impietosì. Al contrario, si esaltò. Ecco che cosa si era lasciato alle spalle, mettendosi al servizio di Molooc! Lui era un privilegiato. Tutti gli altri potevano anche crepare. Era nato nel villaggio, ma se ne vergognava e teneva la cosa segreta.
Si fermò appena superata la porta, due battenti sghembi di canne intrecciate. Nell’ampio spiazzo, riservato al mercato e alle assemblee, si raccolse la gente. Uomini e donne con i volti segnati dalla fatica, bambini sporchi e malati, vecchi macilenti. Tutti in silenzio. Solo il vocio di qualche bambino irrequieto, subito soffocato.
«Abitanti del villaggio di Querceto!» tuonò l’araldo dando di redini al cavallo per controllarne il nervosismo. «Il Granservente Molooc lascia la regione con l’esercito, per sconfiggere i barbari delle regioni settentrionali. Ognuno rispetti le leggi e onori il Granservente anche durante la sua assenza!»
Nessun commento. Il silenzio come una pietra tombale. Solo sguardi di odio e repulsione, per l’araldo. Poi un uomo di mezz’età si fece sentire con una voce profonda: «Quando tornerà il Servente?».
Forse innervosito dalla tensione che aleggiava sul luogo, il cavallo s’impennò e nitrì. L’araldo lo calmò. Poi balzò a terra, si accostò a passi imperiosi all’uomo e lo schiaffeggiò con forza.
«Il Granservente! Il Grande!» tuonò infuriato. L’uo mo chinò il capo. Si levò un brusio indignato, che l’araldo zittì facendo girare uno sguardo minaccioso. Rimontò a cavallo e lanciò un’ultima occhiata all’uomo che se ne stava immobile a testa bassa. Vide solo un pezzente da disprezzare. Identico a tutti gli altri. Miserabili, che non avevano saputo cambiare il proprio destino.
Lui era l’unico che aveva creduto in Molooc. L’unico ad avere fatto fortuna. Si comportò come se avesse dimenticato che l’uomo, il capo del villaggio, era suo padre.
Fece girare il cavallo, ma prima di allontanarsi ruotò il busto e sputò in direzione di Querceto.
In quel momento, gli abitanti scorsero in lontananza l’esercito di Molooc. Transitava sulla via maestra, tra uno sventolare di stendardi e una foresta di picche dritte contro il cielo.
L’osservarono scomparire oltre il bosco di querce, dove fu raggiunto dall’araldo. Immaginarono che l’esercito proseguisse verso i monti Roventi che dominavano il villaggio, dove si diceva che fossero arrivati i draghi. Andava forse a combatterli? Molti si augurarono che venisse sconfitto. Non videro, purtroppo, la smorfia di soddisfazione sul viso dell’araldo. Aveva svolto bene il proprio compito e Molooc l’avrebbe ricompensato. Non videro gli armigeri fare dietrofront e schierarsi in assetto di battaglia. Non sentirono nemmeno Molooc comandare:
«Aspettate che si sentano al sicuro e poi non abbiate pietà. Che serva di lezione per i sudditi ribelli!».
Gli abitanti di Querceto lanciarono occhiate d’odio verso il bosco, poi si strinsero attorno a Jacob, il loro capo, per consolarlo.
«Non devi più pensare a lui» gli disse una donna. «Lui è morto, per te».
Jacob scambiò un’occhiata di disperazione con Gertrud, sua moglie. Come ignorare che il figlio che avevano tanto amato li disprezzava?
Nel frattempo, i bambini con i capelli rossi furono fatti uscire dai nascondigli ingegnosi utilizzati ogni qualvolta si profilava una minaccia. Gli armigeri non erano mai riusciti a scovarli, per quanto buttassero all’aria ogni cosa.
Con Molooc lontano, per un po’ avrebbero potuto vivere all’aria aperta come i loro coetanei con i capelli castani o neri o biondi.
Molooc, interpretando la volontà del dio Tritan, li aveva dichiarati contronatura. Li chiamava «i figli dei draghi». I suoi sgherri davano loro una caccia spietata. Dopo averli catturati, li facevano lavorare come schiavi nelle miniere d’oro, dov’erano destinati a morire di stenti.
Jacob e Gertrud si allontanarono in direzione della propria abitazione, mogi mogi. Più che l’umiliazione, Jacob sentiva lo strazio di sapersi odiato dal proprio unico figlio.
La gente riprese le normali occupazioni, i bambini si raggrupparono, o per giocare o per svolgere i compiti assegnati.
La tranquillità, però, ebbe breve durata.
«Gli armigeri!» urlò un ragazzo che era sgusciato oltre la palizzata per recuperare una palla di stracci. Il suo grido gelò tutti. Cose e persone sembrarono impietrirsi. Poi scoppiò il caos. Si sentirono soprattutto gli strilli delle madri che chiamavano a sé i figli. Se i figli avevano i capelli rossi, i richiami erano striduli e disperati.
Sollevando nugoli di polvere, gli armigeri irruppero nel villaggio, osservati a distanza da Molooc. A pochi passi da lui, dietro i dignitari che lo circondavano, anche l’araldo osservò compiaciuto.
Avrebbe voluto che il villaggio fosse dato alle fiamme e che ogni abitante venisse ucciso. Così, le sue umili origini sarebbero state cancellate per sempre. Tutta la sua cattiveria traspariva dall’espressione crudele che gli deturpava il viso.
Gli armigeri avevano una consegna precisa: catturare i bambini con i capelli rossi ed eliminare chiunque facesse opposizione.
La ferocia con cui assalirono il villaggio eccitò Molooc. Era un uomo alto e robusto, un colosso. La faccia era larga, con un naso grosso a patata, le labbra incolori e sottili, gli occhi piccoli e neri, di luce malvagia. I capelli erano tagliati a scodella e lasciavano libero il collo tozzo.
Indossava un’armatura di cuoio nero rifinita in argento e brandiva uno spadone che scintillava al sole. Lo agitava alto come se anche lui partecipasse all’incursione.
«Non ve ne deve sfuggire nemmeno uno!» intimò ancora, lanciando poi uno spaventoso grido di guerra.
In poco tempo, furono bruciate cinque capanne. Furono catturati sette bambini. Furono uccise nove persone. Altre dodici rimasero ferite. Gli assalitori fecero anche razzia di animali e di viveri. Avrebbero poi festeggiato per tutta la notte.
Ancora non sapevano che una bambina con i capelli rossi si trovava, proprio al momento dell’attacco, sulla collina del frutteto appena fuori il villaggio, dove si era voluta recare nonostante il divieto della mamma. Era stanca di starsene sempre nascosta! Voleva cogliere una mela con le proprie mani!
Da lassù, nascosta dietro un biancospino, vide tutto. Avrebbe voluto precipitarsi giù dai genitori, ma strinse i denti e se ne stette lì, terrorizzata.
Scorse una pattuglia uscire dal villaggio per controllare i dintorni. Doveva allontanarsi subito, o l’avrebbero scoperta.
Sapeva muoversi come una volpe e sarebbe scom parsa in fretta, se non ci fossero stati i cinghiali che gli armigeri usavano come cani da cerca. Lei li odiava. Erano grossi e neri, feroci e spietati. Si misero a grufolare nella sua direzione, strattonando i guinzagli. Gli armigeri capirono e si buttarono all’inseguimento. La bambina si mise a correre, il cuore che le batteva forte. Raggiunse il torrente. Lo risalì sguazzando nell’acqua, indifferente alle ferite che i sassi le provocavano sui piedi nudi. Si fermò solo quando fu sotto un costone roccioso. Ci si arrampicò agile come una lepre.
Si ritrovò su un pendio d’erba e lo risalì sempre di corsa, ansimando. Finalmente si addentrò nel bosco, rendendosi invisibile. Non si era mai avventurata in quei luoghi. Erano maledetti. Il confine del regno dei draghi. Il suo amico Tiglio ne aveva incontrato uno. Non tutti gli credevano. Lei sì. Tremando di paura, passò accanto a una cascata e sobbalzò quando un uccellino volò via bucando il velo d’acqua come una freccia.
Colpita dall’apparizione improvvisa, indagò con attenzione. C’era una grotta, dietro la caduta dell’acqua. Ci si arrivava per un sentiero più adatto a una capra che a una bambina. Ma lei, che si chiamava Bacca, era non solo più agile, ma anche più veloce di una capra: in un attimo, lo percorse. S’infilò cauta nella grotta, temendo che l’abitasse qualche bestia. C’era buio, c’era silenzio. Si raggomitolò, il cuore che le scoppiava. Aveva voglia di piangere. Singhiozzò piano.
Che cosa era successo ai suoi genitori? E ai suoi amici? E lei, che cosa avrebbe fatto? Sarebbe mai tornata al villaggio?
Intanto, sopra la cascata, là dove il bosco finiva sul versante roccioso della montagna, una creatura gigantesca planò con eleganza.
Era una specie di rettile arancione, con una cresta verde sulla testa e sulla coda. Il muso cavallino si drizzò per aspirare aria nelle narici frementi: odore di umano. Una breve fiammata si scatenò dalla bocca, arroventando l’aria; nello stesso momento la bestia, da arancione, divenne rossa.
Ignara di tutto, anche Bacca drizzò la testa, asciu gandosi le lacrime. Nonostante la situazione terribile, qualcosa le impediva di disperarsi. Una voce che le risuonava nella mente. No paura, noi iuta te.
«Chi siete?» mormorò rauca. I Orendi.
«Aiutatemi, Orrendi!»
Tratto da:
I nostri amici Orrendi si trovano ora a fare un viaggio ancora più assurdo del solito: Lalla dovrà portarli nel Regno di Cormundia… nel 1150. Ebbene sì, un viaggio nel tempo, per salvare un gruppo di bambini perseguitati solo per il colore fulvo dei loro capelli e ridotti in schiavitù in nome del perfido dio Tritan.
Ma le sorprese non finiscono qui: i nostri amici fanno conoscenza con due nuovi potenziali Orrendi: Saxolino, giovane nano e il padre, l’irruente Nanoz. Sono entrambi forti, coraggiosi, ma anche estremamente buffi.
“Sputalocchio nella zuppa!” è una delle tante, colorite espressioni con cui Saxolino accoglie l’improvvisa e pericolosa peripezia in cui si trova coinvolto. In questa atmosfera avventurosa, non manca nemmeno un giovane drago…
Età di lettura: da 9 anni.