Il falco ferito

Era inverno e il cielo, di piombo, minacciava neve: ma l’aria, intanto, era immota: e benché fosse ancora giorno, già si faceva scuro. Io avevo, allora, quindici anni, e me ne stavo, con una grammatica greca sulle ginocchia, vicino al fuoco: che, alimentato continuamente da vecchie grossi rami di pino rinsecchito, faceva una fiamma bella e luminosa. Nel cucinone della casa di montagna- una vecchia ma solida casa circondata da abeti- c’era soltatnto il nonno: sembrava un robusto abete anche lui, con una gran barba brizzolata al posto dei licheni e due occhi che indicavano la sapienzaacquistata nel duro lavoro fra il silenzaio dei boschi.

D’un tratto, un colpo di fucile lontano: poi un altro. Messo da parte il libro, uscii a vedere. Nulla. Diedi un grido di rixhiamo. Nulla. Stavo per rientrare in casa, quando vidi una massa nera passare a volo radente sul prato: ma bassa, sempre più bassa, come di uccello ferito che cerchi diperatamente un rifugio. Parve averlo trovato, infine: perché un fitto cespusglio l’accolse, con un secco rumore di rami rotti. Andai a vedere; e fattomi largo fra le frasche, mi trovai davanti ad un bellissimo falco. Ansimava, ferito. E per di più nell’urto contro i rami s’era spezzato un ala: che teneva distesa, con le grandi pennse aperte, come un moncherino inutile. Era giovane. Avrà avuto un’apertura alare di ottanta centimetri. Solo gli occhi, mobili e acutissimi, erano vivi in quel corpo morto: e fissavno senza paura l’uomo che si avvicinava.

Ma io non ero un nemico, Mi chinai sull’uccello e lo accarezzai lievemente a lungo. il falco capì e non usò contro di me il becco adunco. Allora raccolsi l’uccello e lo portai a casa.
– Guarda, nonno, che cosa ho trovato
-Oh, è un falchetto ferito. Che cosa ne vuoi fare?
_Guarirlo e ammaestrarlo.
Scosse la testa:
-Ma è sempre un falco!
Lo mise in un cesto di fieno morbido. Gli portai da mangiare della carne cruda. Rifiutò. Gliela misi accanto, sul fieno, pensando: ” Forse, quando gli sarà passato lo choc, mangerà”
Il giorno dopo mi precipitai in paese e tornai col veterinario. Il quale lo curò- u pallino lo aveva colto di striscio- e gli steccò un’ala.
-E un magnifico esemplare di falco giovane- mi disse- se riuscirai a farlo mangiare guarirà presto. Ma devi trovrgli un posto mogliore di questa cuccetta da galline. ..
Già. Era un falco, un re del cielo. Dentro il bosco, ma vicino a casa, c’era un capanno tutto chiuso da frasche dove il nonno teneva gli attrezzi di campagna, non alto, ma sufficientemente grande.
là portai il falco.
Si era deciso a mangiare. Dapprima con un po’ di sospetto, pi sicuramente e decisamente.
io andavo al capanno ogni giorno, mattina e sera. E guardavo le ferite. L’uccello lasciava fare, scuotendo l’ala chiusa fra gli stecchi che le impedivano di volare: e guardando anche me.

Un giorno ritornò il veterinario: e tolse anche all’ala il gesso di legno. un brivido di gioia passò negli occhi del falco.
-E adesso che farai?l’uccello può volare…
-Lo addomesticherò…
– Ti auguro che ti vada bene..

Invece non mi andò bene. Il falco mangiava sempre meno e diventava sempre più triste.
-Dagli al libertà- mi disse il nonno- per gli animali è come per gli uomini. Senza libertà non vale la pensa di vivere. E allarò le braccia, come per stringere a sé gli abeti e i boschi vicini, i prati, le sorgenti, l’aria…
Io tacevo in quei momenti perché sapevo che era stato prigioniero nella guerra del 1915-18, chiuso in campi di concentramento, circondati di filo di ferro spinato…
Filo di ferro spinato! MA aera proprio come le pareti del capanno dove io avevao chiuso il mio falco…che io volevo tenere perigioniero proprio come gli uomini nei campi di concentramento…
Corsi al capanno. Presi fra le braccia il falco. Gli chiesi perdono. Lo baciai. Poi, uscito all’aria aperta:
– Va’,-gli dissi, e allargai le braccia- il cielo è tuo…
il falco mi guardò a lungo, immoto.poi sbattè le ali e partì in volo. Ma, prima di sparire-libero-all’orizzonte, girò a cerchi concentrici intorno a me.Era gratitudine? Era riconoscenza? Non so; qualche cosa certamente era.
Ma il suo volo mi venen alla memoria molto spesso tanti anni dopo, nella guerra 1940-45, quano anch’io “volavo” per non perdere la libertà e finire dentro un campo di concentramento. La libertà: il maggior bene che abbiano gli uomini: e anche i giovani falchi…

(una parte di un’altra..)

Ero un bambino di sette-otto anni, in Valsugana, al mio paese: vivino al quale scorre limpida la Brenta.
Alla domenica i ragazzi andavano a nuotare lasciandosi portar via, felici, dalla corrente. Un giorno andai anch’io con loro. Li osservai: come muovevano le mani, come respiravano, come tenevano i piedi…
ma io potevo fare benissimo come loro!
Detto fatto, mi spogliai e fra la curiosità di tutti mi butati in acqua e feci come essi facevano: le mani così, i piedi così, la bocca così. La sera nuotavo coe loro. Frasco, irrequieto, felice.
Poi mi esercitai e imparai tutti i modi del nuoto: ma rimasi sempre affezionato a quello a “rana” che mi permetteva di stare in acqua per ore, senza nadare forte, ma anche con assoluta tranquillità, in pace e gioia.

Talvolta, solo fra cieloe mare, al largo, da dove non era visibile la terra, mi pareva di essere tenuto su da un invisibile filo d’oro all’estremità del quale c’era Dio.
E quel pensiero mi dava una commozione profonda, una calma assoluta.

Ascolta la storia letta da don Paolo Alliata

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