La regina del lago

In un piccolo villaggio della Cina viveva un tempo un giovane orfano, bravo e buono ma poverissimo, di nome Cen. Desideroso di non trascorrere tutta la vita coltivando il riso, e conscio che per elevare la propria condizione bisogna studiare, aveva frequentato per qualche anno la scuola del villaggio, dove aveva imparato a leggere e a scrivere e a comporre poesie dolcissime. Il suo compagno preferito era un giovane che si chiamava Liang, e spesso i due parlavano dell’avvenire.
— Quando avrò terminato di studiare — diceva Liang — mi trasferirò nella capitale dove ho parenti ricchi e molto influenti. Essi mi potranno senz’altro aiutare a far carriera, e spero, così, di diventare un mandarino potente.
— Anch’io vorrei far carriera — replicava Cen — ma non ho parenti, e nessuno mi aiuterà. Al massimo potrò sperare di essere assunto come segretario da qualche generale.

Si sentiva un po’ umiliato, e per consolarsi scriveva poesie con un pennellino intinto nell’inchiostro di china. Poi gli studi terminarono, e i due giovani si trasferirono in città. Liang andò ad alloggiare presso i suoi ricchi parenti che subito gli fecero intraprendere la carriera di mandarino, e Cen riuscì a trovare un posto di segretario presso un ricco e famoso generale. Questi portava sempre appesa alla cintola una borsa di seta rossa che conteneva l’inchiostro di china e il pennellino, ma non li adoperava mai. Era Cen, infatti, che doveva seguirlo dappertutto a scrivere a ogni suo cenno.
Un giorno il generale volle fare, con la sua sua giunca, una gita sul lago di Tung-TingSi diceva che quel lago fosse abitato dai geni, ma il generale con vi credeva;  anzi, avendo visto affiorare dalle acque il muso di una foca, la prese di mira con il suo arco e le scagliò una freccia che la colpì sul dorso. I marinai issarono sul ponte della giunca la foca che aveva attaccato alla coda un pesciolino; poi l’abbandonarono al sole, sulle tavole del ponte, e tornarono alle loro faccende.
Il generale, soddisfatto, se ne andò a schiacciare un sonnellino, e Cen, finalmente libero per un poco, poté avvicinarsi alla foca. L’animale respirava affannosamente, per il calore del sole, e per il dolore che la ferita gli procurava; e anche il pesce attaccato alla sua coda sembrava sul punto di morire.
« Povere bestie! » pensò Cen. « Sono certo che il mio padrone, quando si sveglierà, non si ricorderà nemmeno della foca, mentre questa disgraziata bestia morirà dissanguata o arrostita dal sole. Meglio ridarle la libertà. »
Levò dalla cintura una scatolina contenente una polvere che guariva tutte le ferite e curò il dorso della foca poi la sollevò e la gettò nel lago.
Subito la foca si rianimò: fece un giro intorno alla giunca con il muso fuori dell’acqua, come se volesse ringraziare Cen, e anche il pesce fece altrettanto; poi entrambe le bestie si inabissarono.
Quando il generale si svegliò non ricordava più la foca e non fece domande.

il giovane s’imbarcò sopra una giunca per attraversare il lago di Tung-Ting, ma, quando l’imbarcazione giunse al largo, si scatenò una furiosa tempesta.

Passò un anno, e finalmente il generale concesse a Cen qualche giorno di licenza affinché potesse tornare a rivedere il suo villaggio. Tutto felice, il giovane s’imbarcò sopra una giunca per attraversare il lago di Tung-Ting, ma, quando l’imbarcazione giunse al largo, si scatenò una furiosa tempesta. Tutte le giunche in navigazione, sballottate dalle onde, si spezzarono o si rovesciarono, e anche quella di Cen affondò. Fortunatamente il giovane sapeva nuotare e riuscì a tenersi a galla, ma la riva era lontana, e il poveretto sarebbe sicuramente annegato, se una cesta che galleggiava vicino a lui non gli avesse offerto un sicuro sostegno. La cesta prese a navigare come guidata da una vela invisibile, e dopo qualche tempo approdò a una riva.
Cen si distese un poco al sole per asciugare gli abiti fradici, poi si guardò intorno. Non sapeva dove si trovasse, e sperava di incontrare qualcuno che gli indicasse la strada del villaggio, ma sembrava che il posto fosse completamente deserto. Allora si avviò verso una collina tutta coperta di salici, ma era a metà della salita quando una freccia sibilò poco al di sopra della sua testa, e lo costrinse a gettarsi in un fossato. Qualche istante dopo due fanciulle che andavano a caccia gli passarono davanti senza vederlo.
Scomparvero su per la collina, e Cen uscì cautamente dal fossato; poi riprese la salita nascondendosi fra i salici.

Le fanciulle di prima arrivarono di corsa, e dietro di loro camminava la principessa, una fanciulla di straordinaria bellezza tutta vestita di rosso. Accanto a lei c’erano due damigelle vestite di violetto come le altre, e una reggeva l’ombrellino.

Sulla collina regnava una grande animazione. Molte fanciulle simili alle prime, vestite di una tunica violetta e con i capelli sciolti sulle spalle, si lamentavano per la scarsità della selvaggina, mentre alcuni valletti innalzavano padiglioni di seta e facevano arrostire la cacciagione sopra fasci di legna. Altri valletti andavano e venivano con ceste di dolci, e con tazze di tè. Cen, nascosto dietro un albero, aspettò che uno di quei giovani gli passasse vicino e lo chiamò:
— Per favore, puoi dirmi in che luogo sono capitato? — Il ragazzo parve enormemente sorpreso.
— Questo è il regno della regina del lago di Tung-Ting — rispose — e nessun uomo è mai arrivato fin qui. Bada che la regina non ti veda, perché ti farebbe mettere a morte.
— Non è colpa mia — protestò Cen. — La mia giunca è naufragata e sono arrivato qui senza volerlo.
— Capisco — disse allora il valletto — ma la regina non permette a un forestiero di metter piede qui. Per fortuna oggi non c’è, ma vi sono la principessa e le sue damigelle. Perciò ti consiglio di andartene al più presto. Hai sete?
— Moltissima — rispose Cen sinceramente. Il valletto gli diede una tazza di tè e si allontanò. Cen allora decise di superare il cocuzzolo della collina sperando di trovare dall’altra parte una strada che lo conducesse a casa. Ma dall’altra parte trovò un alto muro di cinta che aveva un portone di corallo rosso. Si appoggiò ai battenti per curiosare e quelli cedettero: allora entrò, e si trovò in un parco stupendo tutto fiorito, ricco di laghetti pieni di pesci rossi, con salici piangenti, chioschi dorati, tempietti di marmo verde. Un venticello profumato staccava i fiori dagli alberi e talvolta Cen si trovava letteralmente avvolto da quella fragrante pioggia di petali.
Giunse in una spianata dove c’era un’altalena le cui corde si perdevano in alto, in mezzo alle nubi. La guardava deciso a non meravigliarsi più di nulla, quando udì un allegro vocìo. Le fanciulle di prima arrivarono di corsa, e dietro di loro camminava la principessa, una fanciulla di straordinaria bellezza tutta vestita di rosso. Accanto a lei c’erano due damigelle vestite di violetto come le altre, e una reggeva l’ombrellino.
Cen fece appena in tempo a nascondersi dietro un cespuglio fiorito che la gaia comitiva si fermò. La giovane principessa si avvicinò all’altalena e disse:
— Voglio giocare ancora un po’.
— Non siete stanca, Altezza Reale? — chiese una damigella. — Oggi avete corso molto.
Ma la principessa scosse la testa ridendo e balzò sui cuscini rossi dell’altalena. Subito si lanciò nello spazio e scomparve fra le nuvole; ridiscese, prese lo slancio e nuovamente scomparve fra le nuvole.

— La principessa comanda che aspettiate. Non so per quale ragione: Sua Altezza non è obbligata a spiegare a nessuno le proprie decisioni.

Così via, per molto tempo; ella rideva allegramente, e i capelli lunghissimi le si erano sciolti e ondeggiavano intorno a lei. Cen guardava a bocca aperta e pensava che non aveva mai veduto una fanciulla tanto bella nemmeno nei suoi sogni di poeta.
Quando la principessa fu stanca si allontanò con le damigelle scomparendo in un boschetto di glicini. Ma sull’erba era rimasto il suo fazzoletto di seta rossa.
Cen uscì cautamente dal cespuglio e lo raccolse nascondendolo nella manica. Ormai non voleva più andarsene: desiderava soltanto rivedere la bella principessa. Entrò nel boschetto di glicini e vide che nel mezzo sorgeva un chiosco rivestito di porcellana. Dentro al chiosco c’era un tavolinetto con tutto l’occorrente per scrivere.
Tuffò il pennellino nell’inchiostro e scrisse sul fazzoletto la sua più bella poesia in lode della principessa. L’ ispirazione non gli mancava di certo! Mentre scriveva l’ultimo verso, una fanciulla arrivò di corsa e si fermò esterrefatta sulla soglia del chiosco.
— Chi siete? — domandò. — E come avete potuto giungere fin qui?
Cen raccontò la sua storia e chiese di essere aiutato in qualche modo. La fanciulla disse:— Sto cercando un fazzoletto di seta rossa. Lo avete visto, per caso?
— Credo sia questo — rispose Cen mostrandolo — ma ho paura che si sia un po’ insudiciato — La giovinetta lo spiegò e lesse la poesia, poi disse:
— Temo di non poter far niente per voi, adesso. La principessa tiene molto a questo fazzoletto e lo porta sempre con sé. Non vi perdonerà di averlo scarabocchiato. È un peccato, perché siete gentile e la vostra poesia è molto bella. Aspettatemi qui; tornerò fra poco e vedrò come posso aiutarvi. La fanciulla corse via e Cen attese. Aspettò fino a sera, senza osare muoversi, altrimenti la damigella non lo avrebbe più ritrovato. Già il sole era tramontato e le ombre incominciavano ad avvolgere il parco, quando vide ritornare la fanciulla che reggeva una lampada fra le mani, ed era seguita da un’altra che portava un cesto di vettovaglie.
— Buone notizie! — ella esclamò di lontano. — La principessa ha letto la vostra poesia, e invece di adirarsi l’ha molto ammirata. Vi manda da mangiare, e non vuole che ve ne andiate questa notte, perché vi smarrireste in tanto buio. Cenate e restate qui: io tornerò domattina.
Deposto il cesto delle vivande sul tavolino, le fanciulle se ne andarono. Cen quasi non toccò cibo e non riuscì neppure a dormire per l’inquietudine.
Al mattino la giovinetta ritornò con altri cibi, e alle ansiose domande di Cen rispose:
— La principessa comanda che aspettiate. Non so per quale ragione: Sua Altezza non è obbligata a spiegare a nessuno le proprie decisioni.
Cen rimase nel padiglione anche quel giorno, e la sua ansia aumentava di continuo. Tuttavia non tentò di fuggire. Ma verso sera rimase atterrito vedendo riapparire la fanciulla seguita da un drappello di soldati, che reggevano fiaccole e catene, armati fino ai denti. Le fiaccole davano un aspetto ancora più sinistro alle loro facce.
— Siete perduto, amico mio! — esclamò la damigella entrando nel chiosco. — La regina ha saputo della vostra presenza qui, e si è adirata moltissimo. Ha comandato di arrestarvi, e temo che le cose si mettano molto male per voi. Subito i soldati balzarono avanti e legarono strettamente Cen.

— Sua maestà desidera vedervi, signor Cen — dissero. — Vi preghiamo di seguirci. Cen ubbidì, più meravigliato che mai, e fu condotto in uno stupendo palazzo di marmo dove c’era un’ampia sala tutta circondata da cortine di bambù verde.

Stavano conducendolo via, fra due ali di damigelle sbigottite, quando una delle fanciulle gridò:
—Sono certa di non sbagliarmi! E’ proprio il signor Cen!
Tutti furono stupefatti, e Cen più che mai. C’era qualcuno che lo conosceva, che lo chiamava per nome, nel parco della regina del lago?!
—Aspettate — gridò ancora la giovinetta. — Debbo parlare subito con la regina. Slegate il signor Cen e attendete nuovi ordini. I soldati ubbidirono, mentre la ragazza partiva come una freccia, e Cen si domandava che cosa stesse per capitargli ancora. Poco dopo vide venire due alti  dignitari di corte i quali s’inchinarono con profondo rispetto fino a terra. — Sua maestà desidera vedervi, signor Cen — dissero. — Vi preghiamo di seguirci. Cen ubbidì, più meravigliato che mai, e fu condotto in uno stupendo palazzo di marmo dove c’era un’ampia sala tutta circondata da cortine di bambù verde.
— Entrate, signor Cen — dissero gli alti dignitari, ritraendosi rispettosamente.
Cen sollevò timidamente la cortina di bambù ed entrò nella sala. Sul trono era seduta una bellissima signora. Ella venne incontro al giovane che era inchinato fino a terra.
— Siate il benvenuto nella mia casa, signor Cen — disse sorridendo. — I miei servi non vi conoscevano, e vi prego, quindi, di perdonare l’accoglienza che vi hanno fatto.
— Ma come mi conoscete voi? — chiese Cen sbalordito. — Io non ho mai avuto l’onore di incontrarvi, prima d’ora!
— È invece mi avete proprio incontrata — continuò la regina. — Anzi, se io vivo e regno, lo debbo soltanto a voi: non sarete mai ricompensato abbastanza.
Batté le mani e subito valletti e schiave imbandirono un superbo banchetto a cui partecipò anche la principessa. Ella aveva imparato a memoria la poesia di Cen e la recitò con molta grazia. Poi Cen fu invitato a improvvisarne altre ed egli ubbidì subito: dedicò molte delle sue composizioni alla regina, ma moltissime alla principessa, che lo guardava dolce, con il capo lievemente reclinato verso la spalla.

La tua poesia era piena d’amore, e così bella e appassionata che io pure provai subito un grande amore per chi l’aveva scritta.

— Signor Cen — disse a un tratto la regina, — io desideravo per mia figlia uno sposo generoso, buono e intelligente, che la facesse felice. E chi è migliore di voi? Accettereste mia figlia in moglie?
Cen, fuori di sé per la gioia, non seppe che balbettare un sì, e subito entrarono sonatori e danzatori e la cerimonia delle nozze fu celebrata fra l’esultanza generale.
Ma Cen credeva sempre di sognare, e temeva di svegliarsi da un momento all’altro; perciò alcuni giorni dopo decise di interrogare la principessa sulla sua strana e meravigliosa avventura.
—Moglie mia, — disse Cen — in che occasione la regina mi ha conosciuto, e perché mi ringrazia sempre? La principessa sorrise dolcemente.
—Ricordi la foca che un giorno il generale ferì con una freccia sul lago di Tung-Ting? Era mia madre, che assume sempre quella forma, quando sale in superficie. Sarebbe morta, se tu non avessi avuto compassione di lei!
—E come ha potuto riconoscermi la damigella? — chiese ancora Cen.
—La damigella era il pesce attaccato alla coda della foca. Non volle abbandonare la regina, e perciò ti vide bene in faccia.
Cen fece un’ultima domanda.
—Perché non mi hai fatto morire subito, quando hai riavuto il fazzoletto rosso scarabocchiato da me?
—Questo dovresti indovinarlo da solo! — sorrise la principessa. — La tua poesia era piena d’amore, e così bella e appassionata che io pure provai subito un grande amore per chi l’aveva scritta. Non ho forse acconsentito alle nozze subito e con gioia? Allora Cen sentì che non doveva chiedere altro. Non gli restava che godere la prodigiosa felicità che il destino gli elargiva, e che gli sembrava persino troppa, in cambio di una buona azione.

Allora Cen sentì che non doveva chiedere altro. Non gli restava che godere la prodigiosa felicità che il destino gli elargiva, e che gli sembrava persino troppa, in cambio di una buona azione.

Passarono molti anni.

Un giorno un ricco mandarino che si chiamava Liang decise di andare in gita con la sua giunca sul lago di Tung-Ting. Era un uomo ricco e fortunato, che aveva fatto molta carriera, grazie soprattutto a certi suoi parenti che vivevano nella capitale.
Era stato compagno di scuola di un povero ragazzo chiamato Cen, il quale a sua volta avrebbe voluto far carriera, ma non aveva conoscenze né protezioni, e sebbene bravissimo nell’improvvisare poesie, non era riuscito a farsi un nome, neanche come poeta. Liang infatti non lo aveva più incontrato, e pensava proprio a lui mentre errava sul lago, nella sua giunca dipinta di rosso, piena di schiavi e di marinai. Quando scese la notte, ordinò che fossero accesi i lampioncini, perché gli piaceva suscitare la meraviglia dei pescatori e dei padroni delle altre giunche.
La sua sarebbe stata infatti la più bella di tutte, se improvvisamente egli non ne avesse visto un’altra, ornata e illuminata cento volte di più, con ghirlande di fiori che pendevano dal bordo, e ornamenti di giada e di madreperla. Sul ponte non c’era nessuno, ma una musica dolcissima proveniva dai finestrini laccati di rosso.
Liang fece avvicinare la propria giunca e, attraverso uno di quei finestrini, vide una tavola imbandita con piatti e coppe d’oro; e, seduto a capotavola, un giovane vestito come un principe il cui volto gli era ben noto. Ma come mai era vestito così? E come, soprattutto, aveva potuto mantenersi prodigiosamente giovane? Si sporse dal parapetto e gridò:
— Cen! Cen! Sei proprio tu?
Udendosi chiamare, Cen si affacciò al finestrino, poi si affrettò a correre sul ponte.
— Liang! — gridò. — Come sono felice di rivederti! Vieni subito qui, ti prego!
Fece lanciare una passerella e Liang poté trasbordare. Abbracciò teneramente l’amico, poi entrò con lui nella sala e sedette alla ricca tavola imbandita.
— Hai fatto fortuna anche tu! — disse quando ebbe terminato di rare i cibi squisiti. — Credevo, diventando mandarino, di avere raggiunto una meta insuperabile, ma vedo che tu mi hai superato, e di molto! Eppure pensavo che i poeti non riuscissero mai ad arricchire.
— Io invece, — replicò Cen sorridendo — debbo la mia fortuna proprio a una poesia.
— Straordinario! E inoltre debbo dirti che non sembri per nulla invecchiato. Come mai?— I poeti restano sempre giovani;  anzi, qualche volta hanno addirittura il privilegio di non morire. Non ricordi che nelle scuole della Cina si studiano i versi di poeti vissuti anche duemila anni fa? Chi è più vivo di loro?
— É vero! — Liang non sapeva raccapezzarsi; guardava intorno le meraviglie di quella giunca fiabesca, e infine chiese:
— Che fai qui, sul lago di Tung-Ting?
— Passo qualche ora divertente insieme a mia moglie — rispose Cen. — Permetti che te la presenti.
La principessa entrò, e Liang si inchinò, sbalordito dalla sua bellezza.  Ma purtroppo era venuto il momento di congedarsi, e Cen tolse da un cofanetto una grossa e magnifica perla dalle sfumature opalescenti.
— Conservala per mio ricordo, amico mio — disse abbracciando affettuosamente Liang. — Forse non ci rivedremo mai più.
Liang prese la perla e ritornò sulla sua giunca; ma quando si volse per ammirare un’ultima volta quella di Cen, non vide che le onde nere del lago, e la luna che vi disegnava una scia di luce serpeggiante.

La perla dalle luci opalescenti era sempre al suo posto e lo convinceva di non aver sognato. La lasciò ai suoi figli, e questi ai loro figli; ma la vera storia della perla rimase per i discendenti un mistero.

Ritornò a casa, ma il giorno dopo fece sellare un cavallo e partì per il suo villaggio natale. Appena giunto cercò gli anziani del paese e domandò loro:
— Conoscevate il poeta Cen? Potete dirmi come abbia potuto fare così gran fortuna?
— Conoscevamo un poeta che si chiamava Cen — risposero gli anziani — ma è stato tutt’altro che fortunato! Infatti è annegato nel lago di Tung-Ting, molti anni fa, durante una burrasca. Liang non chiese di più.
Mise la perla nel suo tesoro, fra le altre cose preziose, e ogni tanto andava a guardarla. La perla dalle luci opalescenti era sempre al suo posto e lo convinceva di non aver sognato. La lasciò ai suoi figli, e questi ai loro figli; ma la vera storia della perla rimase per i discendenti un mistero.

Testo tratto da questo sito.

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