Eretta su di un’alta colonna, la statua del Principe Felice dominava la città. Si trattava di una statua dotata di sentimenti umani, non il solito mamozio di marmo o bronzo che si eleva nelle piazze delle città. Era interamente ricoperta di foglie d’oro fino, con zaffiri al posto degli occhi e un vistoso rubino sull’elsa della spada. Un giorno volò sulla città un rondone; i suoi compagni erano partiti per l’Egitto già da qualche tempo, lui s’era attardato per corteggiare una fringuella dalla sottile figura.
«Posso amarvi?» le aveva chiesto senza troppi preamboli. E lei gli aveva risposto: «Aspetta che decida su altri amanti e lo saprai.» Il rondone non si aspettava che la fringuella avesse tanti corteggiatori, ma s’armò di santa pazienza e aspettò. Trascorsa l’estate, la fringuella si pronunciò: «Ci ho pensato. E ho preso la decisione: restiamo amici.» Era la classica risposta che scava la fossa agli adolescenti e ai rondoni. Il pennuto cadde in depressione e si staccò dal gruppo. Tutti partirono per i paesi caldi, e lui solo rimase in città. Dopo aver volato senza meta tutto il giorno, al cader della notte, non sapendo dove ripararsi, andò a posarsi fra i piedi del Principe Felice. Stava per addormentarsi quando gli cadde addosso una goccia d’acqua. «Strano, non c’è una nuvola e piove.»
Cadde un’altra goccia. “A che serve una statua se non ripara dalla pioggia? Gli uomini edificano monumenti a Garibaldi, Bixio, Bonaparte, e appena fa nuvolo, una di noi deve scappare. Molto meglio un buon comignolo.” Aveva già disteso le ali per volare, quando una terza goccia lo colpì sul capo; guardò in su e… cosa vide? Gli occhi del Principe erano pieni di lacrime, che gli scendevano sulle guance dorate. La piccola rondine si commosse, e cominciò a starnutire come Mangiafuoco al racconto di Pinocchio.
«Chi sei?» gli chiese. «Sono il Principe Felice.» «Cribbio! Sei felice e piangi più di un coccodrillo che ha ingoiato una famiglia numerosa?» «In vita non conoscevo la tristezza, vivevo nel Palazzo della Spensieratezza, dove era proibito l’ingresso al dolore. Le guardie osservavano bene l’espressione di chi voleva entrare, e se lo vedevano giù di morale, lo avvilivano ancora di più con un calcio nel sedere.
Nel nostro palazzo si rideva sempre, al punto che la sera ci dolevano le ganasce. Io, poi, ero il più felice di tutti, andavo a caccia di farfalle inesistenti, e saltellando inutilmente mi scompisciavo. Non avevo la minima preoccupazione, il minimo cruccio, il più piccolo pensiero. Non mi ponevo le classiche domande “chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo?”, facevo rispondere al mio segretario. La reggia era circondata da un muro altissimo, e io non mi curai mai di sapere che cosa ci fosse al di là.
Quando morii, sulla bara furono deposti coriandoli e trombette di carnevale. Eressero a mia memoria questa statua, e fu da allora che mi rattristai. Sì, perché da qui non vedo altro che le brutture e le miserie della città, e sebbene il mio cuore sia di piombo, non posso trattenermi dal piangere. Ora ascolta, mia buona cornacchia…» «Rondine, prego.» «Sì, certo. Dicevo, ascoltami mia buona cornacchia: molto lontano da qui c’è una via stretta, dove sorge una povera casa; attraverso una delle finestre vedo una donna disperata, il figlio giace a letto ammalato, e la donna non ha un quattrino per il medico. Vorresti portarle il rubino che è nell’elsa della mia spada? Con il ricavato potranno chiamare Barnard…»
«Mi aspettano in Egitto» rispose la rondine. «Non si scherza con la maledizione dei faraoni.»
«Ti prego, cornacchia.» «Rondine, prego.» «Sì, certo. Dicevo, ti prego, cornacchia, fammi questo favore, per me sarebbe un sollievo sapere d’aver fatto qualcosa di buono, oltre che ballare e andare al circo come i Ranieri di Monaco.» «Va bene, prima di partire esaudirò il tuo desiderio.» Così il rondone staccò il rubino e volò sulla città. Sorvolò chiese, ponti, palazzi, infine giunse nella casa più povera del paese, dove giaceva il bambino ammalato.
La finestra era aperta ed egli posò su un tavolo la pietra preziosa. Quindi ritornò dal Principe e gli raccontò tutto. «E’ curioso» gli disse, «sento molto caldo, eppure fa freddo.» «Questo succede perché hai compiuto una buona azione.» Era la prima lezione di catechismo della rondine. Il giorno dopo, volò al fiume e si bagnò. Fece il giro di tutti i campanili, incontrò anche il passero solitario di Leopardi, e inutilmente cercò di scambiare con lui una parola. Al sorgere della luna ritornò dalla statua, e le disse: «Parto in questo momento per l’Egitto, hai qualche incombenza per quel paese?»
«Bell’uccellino, non vorresti restare un’altra notte con me? Se mi farai compagnia ti reciterò il X Agosto di Pascoli. Fa così: “Ritornava una rondine al tetto: l’uccisero: cadde tra spini: ella aveva nel becco un insetto: la cena dei suoi rondinini”.» «Mi aspettano nella terra delle mummie, dove gli abitanti camminano di lato…» «Ti chiedo ancora un piacere. Lontano di qui, dall’altra parte della città, in una soffitta, vedo un giovane scrittore fallito. Ha tentato con tutte le case editrici, da Adelphi a Zelig, ma nessuno gli ha risposto. E’ una vecchia storia questa degli editori che non rispondono.
Ora vorrebbe scrivere una farsa in cinque atti, ma la fame gli ha annebbiato il cervello: sta facendo morire tutti i personaggi. Rubini non ne ho più, ma ho gli occhi, due zaffiri (pronuncia: zaffiri) rarissimi. Prendine uno, e portaglielo, vendendolo si sfamerà, e (per lo meno) potrà pubblicare a pagamento.» La rondinella voleva partire, ma si intenerì ascoltando quella storia, e cavò un occhio al Principe.
«Tante grazie d’avermi cecato, rondine, ti sarò sempre riconoscente.» L’uccello spiegò le ali e andò a depositare la pietra preziosa nella soffitta dello scrittore. L’accesso era facile perché vi era un buco nel tetto. Il giovane non si accorse della rondine, perché aveva la testa nascosta fra le mani (classica posa dello scrittore inedito) e quando alzò il capo vide il bellissimo zaffiro sul tavolo. “Ah! qualche editore comincia ad apprezzarmi!” pensò, e subito si mise a scrivere di gran lena.
La pantomima tra l’uccello e la statua si ripeté altre due o tre volte: il rondone affermava di dover andare in Egitto, e il Principe gli raccontava di altri guai neri; quello prelevava dalla statua ciò che c’era da prelevare, andava a donarlo a qualche disgraziato, ritornava, giurava ch’era l’ultima volta che lo faceva, e poi si ricominciava. Finì che la statua, a forza di sottrazioni, restò cieca e senza un filo d’oro. Nemmeno Tommaseo avrebbe meritato un monumento così spoglio. L’ultima volta che la rondine tornò dal Principe, gli disse: «Sei orbo, rimarrò con te.»
«No, piccola rondine, ora non valgo più niente, puoi andare in Egitto.» «Nient’affatto!» gridò l’uccello. «Rimarrò con te! Quando dico una cosa, quella deve essere!» e ciò detto si addormentò ai piedi della statua. Venne l’inverno, e la temperatura scese sotto lo zero. La rondine soffriva il freddo più di un negro al Polo Nord, ma non voleva lasciare il Principe. Raccoglieva briciole di pane sulla porta del fornaio, avanzi di cassata alla siciliana, e cercava di scaldarsi battendo le ali (ma ci sarebbero volute quelle di Icaro per ottenere qualche risultato).
Un giorno capì che la fine era vicina. Ebbe ancora la forza di volare sulle spalle della statua e sussurrarle: «Addio, Principe, permette che le baci la mano?» Il Principe, cui la rondine aveva tolto anche una tromba di Eustachio, capì una cosa per un’altra, perché disse: «Magnifico, sono proprio contento che tu abbia deciso di andare in Egitto, eri rimasta troppo a lungo qui.» «Non vado in Egitto» gli urlò nell’orecchio l’uccello. «Vado a morire, capito? Mo…ri…re!» Ciò detto baciò sulle labbra la statua e cadde stecchito. In quel momento, il cuore di piombo del Principe, si spaccò in due, a causa del gelo. La mattina seguente, il sindaco, passeggiando nella piazza con un consigliere, alzò gli occhi al monumento e lo vide ridotto così male. «Povero me! Che è mai successo alla statua?»
«Che è mai successo alla statua?» fece eco il consigliere, che non dissentiva mai dal sindaco. «Il rubino non c’è più, gli zaffiri neanche, e non è rimasta nemmeno una lamina d’oro. Il Principe sembra un mendicante.» «Un mendicante» fece eco il consigliere, che non dissentiva mai dal sindaco. «E ai suoi piedi c’è un uccello morto, sembra uno scarafaggio. E’ necessario emettere un’ordinanza affinché non sia permesso agli uccelli di morire nella nostra città.»
«Di morire nella nostra città» fece eco il consigliere. Così la statua del Principe Felice fu abbattuta. «Dal momento che non è più bello, ha cessato di essere utile» sentenziò un antenato di Sgarbi. Fusero la statua, e il sindaco riunì il Consiglio per deliberare che cosa fare del metallo. Fu stabilito che sarebbe stato eretto un altro monumento.
«Questa volta rappresenterà me» fece il primo cittadino, «e lo voglio in posa da Ceausescu.» «Quando mai?!» ribatté il capo dell’opposizione, «raffigurerà me, nell’atto di sferrare un calcio.» «Che cosa strana» osservò un operaio della fonderia, «questo cuore di piombo non si scioglie al calore della fornace… Dovremo buttarlo via.» E lo gettarono nello stesso mucchio di spazzatura dove giaceva il piccolo rondone morto.
«Portami le due cose più preziose della città» disse Dio a uno dei suoi angeli. E l’angelo gli portò il cuore di piombo e l’uccello morto. «Hai scelto bene» fece il Signore, «poiché questa rondine canterà in eterno nel mio giardino, e il Principe Felice mi glorificherà nella mia città d’oro. Vi benedica Dio Padre Onnipotente: Padre, Figlio e Spirito Santo. La messa è finita, andate in pace.»