Andar per more

È una gita da fare con vecchi amici, alla fine dell’estate. Le vacanze sono agli sgoccioli, tra qualche giorno si ricomincia; allora è piacevole un’ultima passeggiata tranquilla che sa già di settembre. Non c’è bisogno di inviti, di mangiare insieme, basta una telefonata, in un primo pomeriggio domenicale: «Verreste a cogliere le more?» «Che combinazione, stavamo per proporvelo!»

Si torna sempre nello stesso posto, lungo la stradina, al limitare del bosco. Ogni anno i rovi diventano più fitti, più impenetrabili. Le foglie sono di un verde opaco, profondo, i gambi e le spine di una sfumatura vinaccia che richiama i colori della carta vergatal con cui si ricoprono libri e quaderni.

Ognuno si è munito di una scatola di plastica dove le bacche non si schiacciano. Si comincia a cogliere senza molta frenesia, senza molta disciplina. Basteranno due o tre vasetti di marmellata, da assaporare subito nelle colazioni di autunno. Ma il piacere massimo è quello del sorbetto. Un sorbetto di more mangiato la sera stessa, una dolcezza gelata dove sonnecchia tutto l’ultimo sole pieno di scura freschezza.

Sono piccole le more, di un nero brillante. Ma cogliendole preferiamo gustare quelle che hanno ancora qualche granello rosso, un sapore acidulo. Le mani si macchiano presto di nero, ce le puliamo in qualche modo sull’erba bionda. Sul limitare del bosco le felci si fanno rossicce, e pendono ricurve sopra perle violette di erica. Si parla del più e del meno. Poi si ritorna.

La strada sale e scende appena: una strada per far quattro chiacchiere. Tra due rovesci, torna a offrirsi una luce ancora calda. Abbiamo colto le more, abbiamo colto l’estate. Alla curva dei nocciòli, andiamo verso l’autunno.

Da P. Delerm, La prima sorsata di birra, Mondadori

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