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Il monello del presepe – Una promessa di natale

Il monello del presepe – Una promessa di natale

16 dicembre

Era il primo giorno di una novena di Natale di tanti anni fa.

“Dai nonno, tu che conosci tante storie… raccontacene una!”, supplicarono i tre nipoti appena rientrati a casa dalla novena. Sebbene da tempo un tale desiderio non costituisse per lui una sorpresa visto che già sapeva che tipo di storie avrebbero voluto ascoltare, pervaso di fiducioso ottimismo, rispose: “Va bene, va bene! Se fate i buoni e non mi chiedete la stessa storia dello scorso anno, lo faccio molto volentieri”. Dopo una furente battaglia per accaparrarsi il posto a lui più vicino, Fabio  chiese: “Raccontaci di nuovo la storia del monello del presepe”. “Sì, quella del nonno che non aveva nipoti e ne voleva uno” aggiunse Emma con tono lusinghiero. “Quella di Turi che va a trovare Gesù Bambino” concluse Milo il più piccolo. “Ci risiamo!” mormorò tra sé e sé il nonno. Da sempre affascinati dal suo novellare ma del tutto indifferenti a quanto aveva appena detto loro, ribadivano ancora una volta di non avere alcuna intenzione d’ascoltare un racconto diverso da quello solito. Anno dopo anno, infatti, il primo giorno della novena di Natale, chissà perché volevano che venisse loro raccontata sempre la stessa storia che ormai conoscevano a memoria ma che, ai loro occhi, meritava d’essere narrata per l’ennesima volta. Rassegnato, pur di averli intorno a sé, accolse di buon grado la loro richiesta, apprestandosi a raccontare di un sogno straordinario fatto da un bambino, la Vigilia di Natale… l’inizio faceva così: “C’era una volta… e vissero felici e contenti”.

Di solito, cari bambini, incominciano e si concludono così le favole della nostra infanzia. Quella che invece sto per narrarvi è la storia vera di un mio vecchio amico, che tanto tempo fa decise di raccontarmela sennò, logoro com’era, l’avrebbe sicuramente dimenticata. Provato dalla vita nel corpo e nello spirito, e intimorito dall’incombente vecchiezza, lui non voleva perdere quest’ultima occasione ora che la malinconia, la voce malferma e la nebbiosa memoria prendevano lentamente il sopravvento.

Nonno mancato ma non rassegnato, prima di congedarsi dal mondo, aspirava a lasciare qualcosa di sé, un dono ben più concreto d’una semplice fiaba: un fatto vero, un suo sogno lontano nel tempo e mai raccontato. Un sogno da rievocare come una parentesi di dolcezza, un rimedio all’inquietudine del suo tramonto. Credeva d’istinto in questa sua storia, l’unica ispirata, la sola che valeva la pena di scrivere per farne omaggio a una creatura che se fosse arrivata in tempo, gli avrebbe sì sconvolto la vita, ma anche scaldato il cuore.

Di nipoti altrui, infatti, ne aveva visti crescere tanti, farsi uomini e donne mentre lui, stanco e deluso, invecchiava inesorabilmente con un desiderio a lungo accarezzato ma ancora inappagato: un nipotino tutto suo, il cui sorriso avrebbe cancellato la sua lunga e malinconica solitudine. Un nipote da vezzeggiare, forse anche viziare come si merita ogni bambino e al quale raccontare le tante storie messe in serbo da anni, in attesa della sua venuta o magari da inventare lì per lì, solo per lui. Un nipote al quale restituire, con riconoscente continuità generazionale, tutte le cure e le tenerezze ricevute da bambino, recuperando così quel ruolo che lo avrebbe fatto sentire ancora utile e importante.

Già, ma come inizia e come si conclude questa storia? E poi… è proprio una storia o non piuttosto un’innocente suggestione infantile? Forse entrambe visto che narra non solo d’un sogno vero, ricco d’incanti e di prodigi, ma anche d’un viaggio fantastico, intrapreso in una notte unica che non ha mai deluso le attese dei bimbi e che sa come esaudire ogni loro desiderio. Un viaggio il suo che tanto tempo fa, negli anni lontani della sua infanzia, bimbo fiero e ribelle ma dal cuore tenero, riuscì a fare con l’aiuto della sua vivace fantasia e soprattutto, del suo smisurato bisogno d’amore.

Turi, questo era il suo nome, era un bambino dal carattere solare, curioso, sbarazzino, ma indisciplinato a tal punto, che spesso e volentieri si cacciava nei guai dai quali comunque, grazie al suo sorriso fresco e disarmante, riusciva sempre a venir fuori. La sua pelle era scurita dal sole, i suoi mobilissimi occhi erano grandi e profondi, e i folti capelli scuri sempre arruffati gli conferivano un aspetto randagio, quasi selvatico. Viveva, con i genitori e due fratelli più piccoli, in un minuscolo paese del Sud; un arrocco di case sospese sul cocuzzolo di una rupe che, secondo lui, assomigliava al presepe che ogni anno sua nonna gli faceva trovare, bell’e pronto, sul canterano.

Fonte di sostentamento della famiglia, era una botteguccia d’alimentari e generi diversi, la sola del paese, posta sull’unica piazza, e luogo d’incontro di grandi e piccini per le “strabilianti” novità che vi si vendevano a credito.

Dall’alba al tramonto, la principale attività di Turi era l’esplorazione dei dirupi, ingemmati qua e là d’opunzie e olivastri, dalla cui sommità s’affaccia una torre normanna, ardita vedetta che sembra vegliare sul sonnolento paese che gli sta adagiato intorno. Abituato a guardare dall’alto, amava seguire i ghirigori dei colombi nel cielo terso, scrutare il mare all’orizzonte e spaziare sui campi sottostanti addolciti da una ridente natura. Per ore, estatico e dimentico d’ogni altro impegno, sentinella solitaria, vagando con la mente riviveva insidiosi agguati, travolgenti assedi e veementi corpo a corpo tra pirati saraceni e paladini di Francia. L’arrampicarsi sugli alberi, gioco tra i suoi preferiti, aveva su di lui lo stesso fatale richiamo che la carta moschicida ha sulle mosche, in special modo quando le piante offrivano frutti o presunti tali, non importava se maturi oppure no.

Il suo parco giochi era la natura.

Il padre, che sul figlio aveva riposto grandi speranze, trepidante per il suo imprudente e incosciente amore del pericolo, decise d’affidarlo alle suore del collegio d’un lindo paese etneo posto alle falde del vulcano, affinché lo correggessero ed educassero.

Il primo giorno di collegio, rattristato da una pioggia sottile e insistente, rese Turi inspiegabilmente docile alla mano del padre; non un pianto, non un capriccio, ma il suo cuore di bimbo tradito batteva forte e la sua bocca avrebbe voluto profferire parole che a lui sembravano indicibili. Entrando in quel luogo, fu attratto da un’imponente e austera insegna posta sul portone d’ingresso che recava la dicitura “Educatorio Sole e Gioia”, scritta che lì per lì, con fanciullesca irriverenza, ribattezzò “Pioggia e Tristezza”.

Per giorni, non disfece la valigia, col sogno in tasca d’un suo imminente ritorno a casa, ma col trascorrere delle settimane, la speranza s’affievoliva sempre più e la tristezza cominciava a offuscargli gli occhi abitualmente così vivaci, e a velargli il sorriso un tempo brioso e luminoso. Di giorno, non disdegnava la vita di comunità ricca di compagni, giochi e tante cose interessanti da fare ma, sul far della sera, come spesso accade ai bimbi della sua età, l’incipiente oscurità faceva riaffiorare alla sua mente ancestrali paure che ne acuivano l’insicurezza. Un incalzante bisogno di famiglia ora lo ghermiva, e l’inquietudine gli opprimeva l’anima. Pensando al viso della mamma che non era lì a sorridergli e alle possenti braccia del babbo che non erano lì a stringerlo e rassicurarlo, lacrime nascoste rigavano il suo volto. Le suore, che ne percepivano la silente richiesta d’aiuto e ne coglievano lo struggente bisogno di sentirsi amato e accolto, facevano di tutto per consolarlo ma invano, perché lui voleva solo la tenerezza e la protezione cui era abituato da sempre, quella di mamma e papà. Forse a motivo di questo suo disatteso bisogno d’amore, attirava l’altrui attenzione combinandone di tutti i colori, finché accadde il fatto che diede inizio alla sua strabiliante avventura.

Erano i primi giorni d’un lontano dicembre di tanti anni fa quando, giocando a pallone nel cortile della scuola, andò a sbattere contro il vetro d’una porta, ferendosi seriamente alla mano sinistra. In verità Turi non aveva colpa di quanto era successo, convinto com’era che la porta fosse sprovvista di vetri come tutte quelle poste al pianterreno della scuola, già facile bersaglio dei suoi compagni di gioco. Avvertito dalla madre superiora, papà Natale, si recò subito a prendere il figlio per affidarlo alla nonna Carolina che, meglio di chiunque altra, avrebbe potuto vegliare sul pulcino ferito.

Era così, infatti, che la nonna chiamava con infinita tenerezza i nipotini che alla bisogna e per brevi periodi data la sua veneranda età, le venivano affidati per recuperarne il benessere fisico e mentale. Amava Turi più dei suoi occhi e, come una chioccia premurosa, lo aveva sempre difeso dalle sculacciate paterne nascondendolo dietro la sua gonna lunga e abbondante che lei, con le sue mani legnose, allargava sino a farne uno scudo invalicabile. Piccola di statura e grassa nell’aspetto, era morbida e bianca come quasi tutte le nonne. L’unica concessione alla sua femminilità, che peraltro le addolciva il volto segnato dalle fatiche e dal tempo, era l’abitudine di raccogliere i lunghi e folti capelli bianchi in una deliziosa crocchia che portava con nobile leggiadria. Dal carattere mite, aveva occhi luminosi e buoni che sapevano leggere nel profondo, e il suo sguardo era così carico d’affetto che prendeva tra le braccia ancor prima d’alzarle.

Viveva in quel paese da sempre, ed era tanto vecchia che ormai nessuno più in famiglia si ricordava quanti anni avesse. Messa colà a far del bene, mai si era lagnata né tanto meno aveva espresso rimpianti per come aveva vissuto la sua vita. Dopo aver cresciuto cinque figli, non aveva esitato a prendersi cura anche dei nipoti che le erano affidati. Brava in cucina, li cresceva nel corpo con le squisite pietanze che solo lei riusciva a fare col poco che aveva, e n’educava lo spirito con parabole e fiabe d’altri tempi. Anche se, col passar degli anni, viepiù s’incartapecoriva, restava sempre giovane di temperamento, e coltivava l’immutabile desiderio d’avere intorno nipoti d’amare e da consegnare al mondo col suo benaugurante saluto: “Pace, salute e provvidenza”. Il suo cuore che aveva speso ogni energia per i piccoli e che, ormai logoro, non riusciva più a starle dietro, non ambiva altra ricompensa che il diritto di donare ancora.

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