Antonella era seduta sotto l’ombrellone di rafia bianca i cui pennacchi sventolavano al maestralino che giungeva dall’orizzonte. Era stanca. Aveva lavorato tutta la mattina nella grande casa sulla collina, la grande casa che lei e Pietro avevano costruito tanti anni fa, quando erano ancora giovani e, inerpicandosi sul terreno accidentato di quella collina dove era in vendita un lotto di terreno, s’innamoravano del panorama sempre di più a mano a mano che salivano.
“Guarda da quassù, com’è bello il golfo di Procchio!” diceva allora Antonella.
“E guarda da quassù!”, faceva eco Pietro che nel frattempo l’aveva preceduta sul viottolo che scompariva tra le eriche e le ginestre fiorite.
E così, salendo salendo, erano arrivati quasi in cima, dove il terreno finiva poi con la strada provinciale che conduce a Portoferraio.
La casa l’avevano costruita lassù, e da lassù avevano goduto ogni giorno lo stupendo panorama.
La mattina, col sole alle spalle, il golfo diventava di un blu intenso e le vele bianche sembravano farfalle posate sull’acqua, di sera il tramonto dava sempre spettacolo con le sue raggiere di rame e d’oro, e di notte le infinite luci della costa si riflettevano nel mare creando lunghe scie luminose.
Per raggiungere la casa erano stati costretti a costruire una strada dritta con una pendenza da capogiro. Molti amici erano scoraggiati da quella salitaccia, e così solo raramente la loro meravigliosa intimità veniva profanata.
Pietro aveva fatto dipingere la casa di bianco e il candore dei muri spiccava da lontano in mezzo al verde dei pini che avevano fatto piantare attorno. Tutti dicevano: ”Ecco, Pietro e Antonella abitano lassù…”, e in quel ‘lassù’ c’era tutta la dissuasione a salirvi, a quella casa. Per la sua posizione, e per lo sforzo da penitenti che bisognava fare per raggiungerla a piedi, presto tutti, anche i padroni di casa, cominciarono a chiamarla ‘Il santuario’.
“Quei giorni sono lontani”, pensava Antonella mentre se ne stava sotto l’ombrellone con le mani in grembo, quasi a voler fermare il pareo che cominciava a svolazzare anche lui col maestralino, proprio come i pennacchi di rafia sopra la sua testa.
Avevano fatto tanti bagni, lei e Pietro, in quel mare che ora le sembrava così ostile. Era sempre lui il primo a tuffarsi e poi la pregava di raggiungerlo, di unirsi a lui per quella pigra nuotata senza pretese, con il capo fuori dell’acqua per godersi la vista della collina col biancore della loro casa in mezzo al verde.
Lei tergiversava, faceva un po’ di broncio, rimaneva sempre a finire qualche chiacchiera che aveva iniziato con la vicina di ombrellone, smucciava un po’ come se non ne avesse avuto voglia, infine si decideva. Arrivava sul bagnasciuga e lo faceva sospirare ancora dicendo che l’acqua era troppo fredda, o troppo calda “che sembrava un brodino” o che non aveva ancora ben digerito la brioche della mattina.
Lui sembrava spazientirsi ma non si muoveva. Rimaneva fermo dov’era, immerso fino alla cintola, e continuava a pregarla con dolce insistenza: “Dài, vieni Anto!”.
Era come un gioco che rimbalzava fra loro e che solo loro conoscevano.
Lei infine si tuffava e li vedevano scomparire lentamente al di là delle boe che delimitavano l’area balneabile.
“Com’è lontano quel tempo!” continuava a ripetersi Antonella fissando ancora il mare ostile. Il colore era sempre azzurro, e sotto il maestrale le onde s’increspavano un poco, come rabbrividendo al fresco vento di ponente, ma Pietro non era lì per invitarla alla nuotata.
Pietro era morto l’inverno prima, e le figlie avevano letto delle struggenti memorie del padre nella grande e fredda chiesa di città, dove si era svolta la cerimonia funebre.
Da allora, Antonella aveva vissuto in una specie di limbo di sofferenza che la faceva stare ore e ore seduta in cucina, con i gomiti appoggiati al tavolo e il mento appoggiato alle palme aperte delle mani, guardando il televisore senza vedere nulla di quanto veniva trasmesso. Il suo cervello faceva fatica a formulare anche i più semplici pensieri.
Talvolta veniva a trovarla la figlia più giovane, con i due bambini dei quali in passato Antonella e Pietro si erano tanto occupati, e cercava di scuoterla dal suo torpore. Ma neppure i nipotini, così vivaci e rumorosi, riuscivano a sconfiggere l’indifferenza che la dominava.
Si accorgeva ora che Pietro le mancava moltissimo. E non per la compagnia, perché lei era stata sempre talmente occupata nelle sue faccende che talvolta lo allontanava bruscamente se lui si soffermava a chiacchierare con lei, non per l’appoggio fisico, ché lei era stata sempre più energica del marito e volentieri si era sobbarcata le fatiche più dure.
Quello che le mancava di più, di Pietro, era la sua capacità di farla ragionare, di ricondurre alla logica il modo tutto disordinato di pensare che era caratteristico di Antonella.
Di fronte ad un problema qualsiasi, subito i suoi pensieri si aggrovigliavano disperdendosi in rivoli di supposizioni, di slanci, di pentimenti. Ritornava spesso sui suoi passi dopo aver preso una decisione che sembrava definitiva, e poi ricominciava da capo.
All’improvviso, questa meravigliosa guida le veniva a mancare e se ne rendeva conto solo ora, ma non appieno, perché anche su questo pensiero vagava in cerca di sicurezza.
“Era davvero Pietro che aveva sempre messo ordine nella sua vita?”. “Era davvero Pietro che le aveva detto quando era giusto fare il bagno in mare e quando invece si doveva andare a casa per riposare?”.
Paradossalmente, quando lui la pregava di unirsi a lui in qualche attività o progetto, e poi pazientemente aspettava che lei si decidesse a seguirlo, paradossalmente lei cessava di pensare, non sapeva più dire se questo fosse giusto o sbagliato, ma lo seguiva, anche se a volte recalcitrante.
Anzi, Antonella pensava persino che fosse stato Pietro a decidere se lei voleva davvero quei figli che avevano avuto, ma non ne era sicura. Non era stata mai neppure certa di aver voluto lui.
Pietro l’aveva corteggiata pazientemente, costantemente, per mesi e mesi, senza mai scoraggiarsi ai suoi rifiuti, alle sue incertezze, talvolta alle sue chiare ripulse. L’aveva tallonata, seguita, inseguita, e finalmente lei aveva acconsentito a sposarlo.
Dopo il matrimonio, ugualmente, lei talvolta si negava, e quando Pietro la cercava nel grande letto a due piazze stringendola a sé come una bambolina riottosa, lei spesso si divincolava, cedendo solo alla sua dolce violenza. Lo amava, ma lo amava di un amore tranquillo, sempre tenera quando lui era ammalato o mostrava di aver bisogno di lei.
Ora Antonella era seduta sotto il grande ombrellone di rafia bianca e guardava l’orizzonte senza parlare.
“Mamma!”. La voce di sua figlia la fece sobbalzare. La guardò senza grande interesse. Sua figlia Carla aveva solo quarant’anni, ma le due gravidanze quasi consecutive avevano appesantito la sua figura non certo longilinea.
“Tutta un’altra cosa rispetto a sua sorella”, pensava Antonella, che si era sempre compiaciuta della figurina di Luisa, la maggiore.
“E allora, – pensò ancora – perché Luisa non è stata felice, perché non è stata amata come meritava, e Carla invece ha un marito innamorato e affettuoso?”. Anche questo pensiero era molesto, e le girava in testa senza che lei potesse giungere a una conclusione qualsiasi.
“Forse ci vorrebbe Pietro – si disse – lui avrebbe sicuramente una risposta”.
Carla rimaneva in piedi davanti a lei, proprio come faceva suo padre, aspettando che Antonella si scuotesse, e intanto la osservava. Il viso di sua madre aveva sempre un aspetto infantile nonostante l’età. Era rotondo e liscio, incorniciato da una corona di ricci corti e fittissimi che le conferivano un’aria da bambina cresciuta troppo in fretta, e solo due pieghe amare ai lati della bocca dicevano il suo scontento. Dopo la morte del marito anche gli occhi avevano perso quel lampo di arguzia bonaria che Carla ricordava bene e che riscattava la noiosa propensione a brontolare che sua madre aveva sempre avuto.
“È possibile che non mi diate mai una mano?”, usava ripetere ogni giorno, quando le due figlie, Luisa e Carla, rientravano dal mare alla casa sulla collina e si buttavano sul primo divano che trovavano, o sedevano al fresco del loggiato, chiacchierando e ridendo, incuranti della madre che si dava da fare per preparare il pranzo.
Pietro preferiva stare con le figlie, ascoltare il racconto delle avventure della mattina, delle gite in barca, di come il natante avesse scuffiato e il boma stesse per colpire lo skipper, oppure il racconto dell’amoretto della maggiore, del litigio per gelosia della sera prima, e di come lui se ne fosse andato e chissà se lo avrebbe più rivisto…
Tutte queste cose ad Antonella sembrava non interessassero. Lei si preoccupava che i costumi fossero subito sciacquati nella piccola conca sul retro, e che fossero messi ad asciugare sui lunghi fili che aveva fatto sistemare lì vicino. Lei si preoccupava che la pastasciutta si stesse scuocendo a furia di chiacchierare, e brontolava. “Ma possibile che nessuno mi dia una mano?”, ripeteva, “Possibile che ve ne stiate lì a chiacchierare di cose senza senso?”
Pietro allora dava uno scappellotto affettuoso alla figlia più vicina, si alzava e provvedeva che tutto fosse fatto secondo i voleri della mamma. Le ragazze obbedivano senza replicare e infine si mangiava la pastasciutta sotto il grande portico da cui si godeva lo stupendo panorama delle ore quattordici: sole a picco sul mare diventato color turchese.
Tutte queste cose ricordava Carla mentre osservava senza pietà il volto imbronciato della madre e aspettava pazientemente che lei si decidesse ad alzarsi. Era già l’ora di pranzo e i bambini stavano diventando noiosi per la fame e la stanchezza accumulata a furia di corse e di tuffi. Ora si azzuffavano per un nonnulla, e lei aveva voglia di metterli a letto prima possibile, ma sua madre continuava a fissare l’orizzonte senza parlare, con l’accenno di un piccolo sorriso che riusciva a stendere le pieghe ai lati della bocca.
“Ora sembra più giovane” pensò Carla, e ricordava come il babbo fosse innamorato di quell’aria da bambina che la mamma aveva, specialmente al mattino, appena alzata, quando con la vestaglia a fiori e le ciabattine di spugna rosa, usciva dalla camera con i suoi riccioli arruffati e gli occhi ancora segnati dal sonno.
Carla ricordava di aver osservato spesso, in quei momenti, lo sguardo divertito e compiaciuto di suo padre e di aver invidiato quel modo tutto infantile di farsi amare che aveva sua madre, e dimenticava il suo vezzo di brontolare sempre un po’, anche in quei momenti.
“Chi ha lasciato la sua tazza sporca sul tavolo?” chiedeva Antonella già in azione per rimettere tutto a posto, quasi che l’ordine degli oggetti intorno a lei la aiutasse a mettere ordine anche nei pensieri, già arruffati come i suoi riccioli alle otto di mattina.
Ora queste scaramucce erano finite, questa eterna commedia a soggetto, che era andata avanti da quando lei aveva avuto modo di seguirla, era terminata. Sua madre aveva smesso persino di brontolare, e questo era veramente innaturale in lei.
Talvolta Carla lasciava a bella posta la sua camera in disordine o le tazze della colazione in bella vista sul tavolo, con le briciole dei biscotti che prima la facevano tanto arrabbiare, ma Antonella non lo notava più. Talvolta lavava le tazze e le rimetteva a posto meccanicamente, ma la sua voce non si sentiva.
Carla, che aveva sempre sbuffato ai rimproveri di sua madre, ora avrebbe voluto udirli di nuovo. Non le piaceva questo strano silenzio, quest’atteggiamento di indifferenza triste che sua madre aveva da quando Pietro era morto.
Anche a lei suo padre mancava. Le mancava il suo modo pacato di ascoltarle, di accettare le loro diversità, di guidarle senza pretendere obbedienza. Le mancavano la sua gentile ironia e il suo grande equilibrio che riusciva a trasmettere a tutti nella famiglia.
Era proprio perché qui era più vivo il ricordo di suo padre che Carla amava tanto la grande casa di Procchio, quella casa che Pietro aveva costruito per le sue ragazze. Una camera per ciascuna di loro con i bei lettini bianchi, e la grande sala con il camino per l’inverno, quando il mare in burrasca, laggiù, faceva da contrappunto al divampare delle fiamme, e la cucina con il tavolo di marmo dove la mamma preparava i rigatoni alla Norma o le sarde al beccafico, infine il portico davanti all’ingresso, dove il venticello fresco, che dal monte transitava verso la distesa del mare, rendeva così piacevoli i pomeriggi estivi.
“Mamma!” ripeté Carla, e finalmente Antonella si alzò. “Forse ora si è decisa”, pensò Carla, ma non ne era sicura.
Sua madre aveva spesso ripensamenti improvvisi, o pause imprevedibili nel corso delle sue azioni.
Aspettava pazientemente.
Luisa si distese sul lettino da spiaggia, si allungò pigramente sul telo di spugna che aveva in precedenza sistemato con precisione, senza pieghe, con le frange ben pettinate che ricadevano ai lati.
Luisa non era bella davvero ma era molto graziosa. Il suo fascino principale consisteva in una certa languidezza dei movimenti che metteva in risalto le membra piccole e ben fatte, in una sorta di pigrizia nel muoversi che dava l’impressione di una grande calma interiore e che lei aveva ereditato dal padre. Tutto il contrario di sua sorella Carla, sempre in movimento, sempre agitata, come la loro madre ai bei tempi.
Era venuta all’Elba come ogni anno, a maggior ragione ora che il padre non c’era più e la mamma sembrava soffrire di solitudine, ma il suo pensiero era altrove. Da tempo viveva ormai lontano dalla città di nascita. Si era trasferita a Milano per lavoro, poi si era sposata lì, poi si era separata dal marito ed era tuttavia rimasta in quella città, che ormai le apparteneva, con una figlia che era diventata grande. Una bella ragazza che sembrava sua sorella. Le assomigliava nel fisico, possedeva anche lei, come Luisa, due fossette sui glutei, due fossette che ammiccavano al di sopra degli slip da bagno e che si muovevano, creando invitanti chiaroscuri, quando lei e sua madre camminavano sulla spiaggia.
Cosa poteva farci se l’uomo che aveva sposato l’aveva abbandonata? Si era chiesta molte volte in che cosa avesse sbagliato, in che cosa avesse mancato per non aver saputo trattenere l’amore di suo marito, ma non aveva trovato risposta. Sapeva di aver dato un gran dispiacere alla sua famiglia separandosi. Prima di tutti a sua madre, che adorava il genero e non ammetteva la sua intransigente mancanza di comprensione di fronte ad una “piccola crisi”, a suo padre, che comunque aveva sofferto per lei, a sua figlia, che per qualche anno aveva vissuto in una situazione di grande conflitto interiore.
Quella che però aveva sofferto più di ogni altro era stata indubbiamente lei stessa. Una grande mancanza, un dolore lancinante a ogni risveglio, la sensazione di una sconfitta irreparabile che ancora, a tratti, le chiudeva lo stomaco dandole un senso di nausea.
Ora voleva solo stare tranquilla. Era arrivata qua ancora acciaccata nell’animo e non era davvero in grado di consolare la mamma per la perdita di suo marito. In fin dei conti sua madre era stata molto amata e se il babbo non era più accanto a lei, certamente non se n’era andato di sua volontà. Le due sofferenze non erano neppure lontanamente paragonabili fra loro. Si sentiva egoista per la prima volta nella sua vita e non provava rimorsi per questo. Aveva tutto il diritto di curarsi le sue ferite. Come sua madre, si chiedeva perché Carla, sua sorella, fosse stata più fortunata di lei.
Da sotto il suo cappello di paglia, stando sdraiata e facendo finta di dormire, guardava la sorella che spronava la mamma ad alzarsi e dentro di sé la compiangeva. “Povera Carla! – pensava – Ti dai tanto da fare per niente! La mamma non ha più voglia di alzarsi, di muoversi come tu le dici. Non c’è il babbo a spingerla, a farla decidere. Non vedi che è assente?”.
Nel frattempo i bambini di Carla stavano litigando per il possesso di un secchiello pieno di rena umida e le loro grida sembrarono risvegliare Antonella dal suo torpore. “Ecco, andiamo”, disse avviandosi verso l’uscita dello stabilimento in direzione del parcheggio, poi ci ripensò.
Si rivolse alla figlia con tono piagnucoloso: “Fammi fare almeno un bagnetto, però!”
Carla la vide correre verso il mare mentre si toglieva il pareo che abbandonò appena arrivata sul bagnasciuga. Il pareo svolazzò un poco, poi come una farfalla stanca si posò delicatamente sulla sabbia bagnata. Poco dopo un’onda lo raggiunse, lo fece afflosciare e raggrinzire, divenne un cencio irriconoscibile.
Antonella si lanciò nell’acqua turchese senza indugi, prese a nuotare quando il mare le giunse alle spalle.
“Pietro!” – gridò sorridendo – “Aspettami, sto arrivando!” Lo vedeva chiaramente, era al largo e le faceva grandi gesti con le braccia, come a invitarla, come tante volte aveva fatto nelle estati precedenti.
L’avrebbe raggiunto e poi avrebbero fatto una bella nuotata come sempre, ma lentamente, senza stancarsi, con la testa fuori dall’acqua per vedere la loro bella casa bianca, il “santuario”, spiccare chiaramente nel verde della collina.
Tratto dal libro:
Racconti da spiaggia
di Marcella Spinozzi Tarducci