Pitréddu era un ragazzo che teneva il suo gregge al pascolo in una vallata dell’alta Gallura che tutti chiamavano “la Valle della Luna”, perché al centro aveva un pianoro circondato da rocce di granito che, da lontano, rassomigliava a una landa lunare.
Viste da vicino, però, le rocce assumevano l’aspetto di creature viventi, persone e animali. C’era “la roccia del pastore”, che aveva la figura di un uomo incappucciato; a essa Pitréddu si avvicinava la sera, quando scendevano le prime ombre, perché si sentiva come protetto.
C’era “la roccia della volpe”, con intorno l’erba sempre alta perché le pecore avevano paura di avvicinarsi. Quando tirava vento e faceva freddo, si raccoglievano invece, molto volentieri, fra “le rocce dell’ovile”, che formavano come un recinto riparato da ogni parte.
Davanti alla “roccia del vecchio cappuccino”, Pitréddu provava sempre un po’ di soggezione. Erano due enormi pietre; la più alta sembrava proprio una testa calva, col profilo del naso, della bocca e della barba; l’altra, come appoggiata alla nuca, dava l’idea del cappuccio.
Non passava giorno senza che qualche turista venisse a fotografare le due rocce; Pitréddu si divertiva un mondo con i turisti: gli facevano tante domande e lo fotografavano come una bestia rara.
Le pecore stesse non avevano più paura di essi e continuavano a pascolare tranquillamente col muso nell’erba e gli occhi così vicini a terra da sembrare un miracolo che non fossero tutte miopi.
Avevano paura, oltre che della roccia della volpe, anche della “roccia dell’aquila”, che era quasi al limite della radura e poteva essere scambiata per un enorme uccello con le ali distese nel vento.
Al centro del pianoro c’erano poi una ventina di piccole rocce quasi bianche, dove il terreno era nudo perché le pecore vi si fermavano volentieri.
C’erano anche tante altre pietre più piccole che rassomigliavano alle cose più svariate. E fra di esse c’erano alberi i quali, quando tirava vento, facevano un fruscìo che quasi dava vita alle pietre. Sembrava anche che esse si muovessero, specialmente quando la luce del giorno non era più chiara.
Un inverno cadde tanta neve; le rocce, divenute quasi nere per il contrasto, riuscirono a ottenere il massimo della loro rassomiglianza con figure viventi. Fu lo stesso inverno in cui Pitréddu fu costretto a portare il suo gregge verso il mare. Lo faceva soltanto in inverni molto rigidi, perché generalmente nella Valle della Luna si stava bene anche in pieno dicembre.
Le pecore però dimagrirono perché non erano abituate alla salinità del pascolo basso e avevano paura dei gabbiani che, a centinaia, andavano a posarsi su di esse per beccare fra la lana.
Ed era un fatto molto strano, perché non avevano paura delle cornacchie anche se erano più brutte e nere. Quando, in primavera, tornarono alla Valle della Luna, le pecore, senza che Pitréddu ne capisse il perché, drizzarono le orecchie a una decina di chilometri di distanza.
Poi anche il pastorello sentì dei rumori strani che venivano dalla valle.
Arrivato in vista del suo regno, al ragazzo si strinse il cuore e le pecore si fermarono come se non avessero voglia di fare un passo di più.
Il pianoro era invaso da enormi autocarri che portavano via il granito, tagliato a blocchi da strane macchine che lo segavano come fosse burro. Pitréddu ci rimase male: era stupito che una pietra così dura come il granito si facesse tagliare e portar via da gente sconosciuta.
Le pecore fecero dietro front e Pitréddu le riportò al litorale. Quando tornarono ancora, alla Valle della Luna non era rimasta più nemmeno una roccia; il pianoro era quasi coperto da una polvere bianca – la segatura del granito – e il vento, ormai senza ostacoli, era diventato il nuovo padrone.
Le pecore non riconobbero il posto. Delle rocce così familiari era rimasto solo il ricordo; l’orizzonte era diventato più ampio e il cielo più alto.
Gli alberi erano stati tagliati per far passare le macchine che avevano lasciato per terra dei solchi profondi, come strani graffi di unghie gigantesche.
Pitréddu riportò le pecore al mare e rimase lì finché non venne l’estate. Poi andò sul Limbara, a oltre mille metri d’altezza. Provò ancora per un paio d’anni a portare il gregge alla sua valle, con la speranza che esso si riabituasse a un luogo che ora trovava nuovo.
Ma l’erba, senza il riparo delle rocce, non cresceva più e il vento, spazzando la terra, l’aveva resa dura e asciutta. Erano venute su le sterpaglie, che prima non avevano possibilità di crescere perché le pecore ne brucavano i germogli appena spuntati dal suolo.
Pitréddu ci pensò due giorni prima di dare un nuovo nome alla landa: la ribattezzò “la Valle della Morte” e chiese al padre di vendere il gregge.
Adatt. da F. Fresi, La Valle della Luna e altri racconti di Sardegna, La Scuola