Avevamo le stesse scarpe arancioni, quelle spagnole di corda, che in Toscana chiamavano spardegne.
Le nostre mamme erano amiche dall’infanzia, la mia un po’ più giovane della sua, si apprezzavano molto, e quell’affetto ci era arrivato così, in maniera naturale, ereditandolo. Ci sembrava normale stare sempre insieme, ogni estate da quando eravamo piccolissimi, le nostre famiglie si trasferivano nelle loro rispettive case in quel piccolo paradiso affacciato sul mare, sulle scogliere toscane, e da quel momento vivevamo liberi come l’aria, non avevamo orari, o almeno ci pareva, fino al giorno prima di iniziare di nuovo la scuola nelle nostre città, la sua era Firenze, la mia Vicenza.
Ogni giorno nuotavamo a lungo, oppure stavamo sdraiati sul lettino gonfiabile al sole, bordeggiando sull’acqua, a parlare, non mi ricordo di cosa, ma in silenzio stavamo poco. I momenti più belli erano quelli in cui il mare, ingrossato dal vento, formava cavalloni giganti, era impossibile fare il bagno, la temperatura si abbassava parecchio e noi potevamo indossare i nostri adorati jeans pesanti; vestiti così ci buttavamo insieme ad altri bambini incoscienti giù dalle scarpate delle scogliere, oppure, insieme ad altri che si facevano vivi solo con il brutto tempo, facevamo battaglie con le bici soffiando nelle cerbottane le palline dei pittosfori; un altro gioco era fare atletica, saltavamo con l’asta atterrando sull’ enormi masse di aghi di pino, incuranti di tutti quelli che ci conficcavamo durante la caduta.
Ero più spesso io da lui, la televisione era più moderna, la ricordo non perchè la guardassimo tanto, ma perché tutte le Olimpiadi che ci furono fino al quindicesimo anno di età le guardammo tutte, dall’inizio alla fine, con emozione, tanto da ricordarmi ogni momento, con una nitidezza che non ho per altre vicende.
Poi un’estate fu diversa dalle precedenti, dovetti andare, secondo la tradizione di famiglia, per mesi negli Stati Uniti; tutti noi nipoti di una zia particolarmente affettuosa al compimento dei quindici anni partivamo e stavamo con lei un po’ di tempo, io fui quella che rimase di più, e che ritornò sempre anche nei successivi; stetti talmente tanto che non andai neanche un giorno al mare, Gianni mi mancò in effetti, immaginavo sempre al momento in cui gli avrei raccontato il viaggio stupendo che avevo fatto, non vedevo l’ora.
Anche durante i mesi autunnali andavamo alla casa al mare, qualche fine settimana tempo permettendo, era stupendo fare il bagno in settembre e ottobre con quell’aria pulita e l’acqua che sembrava un lago di montagna; eccitata all’idea di rivedere Gianni andai giù al mare di corsa. Ancora ricordo di essergli andata incontro sorridente, stavo per parlargli ma lui mi anticipò con un cenno della testa e uno sguardo come a dire, ”non mi interessa parlarti”. Il gelo nelle vene, che ancora oggi sento, mi annientò, non emise una parola, mi guardò quasi con odio e se ne andò. Cosa avevo fatto di male?
Tutte le vacanze al mare che vissi da quel momento furono diverse, pur vedendolo non avevo più il mio amico con cui confidarmi. Dopo anni seppi da mia sorella, che era diventata sua amica, che lui non voleva più parlarmi per paura che dopo quel viaggio sarei stata troppo montata, presuntuosa e lo avrei fatto pesare, una scusa incomprensibile. Montata di cosa? Sono sicura che non mi abbia mai detto la verità, che nessuno conosce.
Dopo ventitré anni successe una cosa.
Gianni godeva la vita che aveva sempre desiderato, architetto affermato, due bambini piccoli, abitava a Parigi da vent’anni, sua moglie veniva dalla Svizzera, sapevo ogni cosa di lui da mia mamma e da mia sorella; per qualche giorno ero andata a trovare mia madre al mare, anche lui era dalla sua con i due figli, lo vedo un giorno da lontano che si avvicina, mi guarda e mi dice a disagio e imbarazzato, “ti ho portato questa”, prendo la piccola foto polaroid che mi porge, dove lui ed io siamo in posa insieme affiancati, sul prato accanto a casa sua qualcuno ci aveva fotografato, proprio in uno di quei giorni in cui il mare diventava grosso e pericoloso, io con le mie spardegne arancioni e lui un po’ più cittadino con le Adidas che tutti usavamo in inverno.
Quattro anni fa Gianni, una sera, tornando in bicicletta dal lavoro, morì, tradito da un male dentro la sua testa. Rimane la nostra foto dove abbronzatissimi credevamo fosse per sempre.
Di Michela Sanfelici per “Racconti d’Estate”, il primo concorso letterario della Rete delle Biblioteche Vicentine, in collaborazione con Provincia e Il Giornale di Vicenza.