Fin da ragazzo mi son sentito tremendamente solo e diverso. Ricordo che una zia giovane mi dette il soprannome di «vecchio» a sei o sett’anni e che tutti i parenti l’accettarono. E difatti me ne stavo il più del tempo serio e accigliato: discorrevo pochissimo, anche con gli altri ragazzi; i complimenti mi davan noia; e al chiasso sfrenato dei compagni dell’età più bella preferivo la solitudine dei cantucci più riparati della nostra casa.
Ero, insomma, un bambino scontroso e dovevo essere tremendamente antipatico a tutti. E mi ricordo che sentivo benissimo intorno a me questa antipatia la quale mi faceva più timido, più malinconico, più imbronciato che mai.
Quando mi ritrovavo per caso con altri ragazzi, non entravo quasi mai nei loro giochi. Mi piaceva star da parte a guardarli coi miei occhi verdi e seri. Io li sfuggivo e loro mi trascuravano.
Sì, è vero: io non sono stato bambino. Sono stato un «vecchio» pensoso e scontroso. No: io non ho mai conosciuto la fanciullezza. Non ricordo affatto d’esser stato bambino. Mi rivedo, sempre, selvatico e soprappensiero, appartato e silenzioso, senza un sorriso, senza uno scoppio di franco piacere.
Un’infanzia solitaria e pensosa; un’adolescenza di sogni tormentosi, illuminata dalle letture; e una giovinezza rivoluzionaria, tra battaglie, giornali, illusioni e disillusioni. “Un uomo finito” (1913) è il romanzo-autobiografia intellettuale nel quale Papini racconta i primi trent’anni di vita di un giovane “nato con la malattia della grandezza”.
Affascinato da Bergson e dal titanismo di Nietzsche, lo spirito inquieto e geniale dell’autore, alla perenne ricerca della verità, rivive in un racconto sincero animato da una prosa ricca e brillante, con accenti di profonda poesia. Un’opera imprescindibile per cogliere la temperatura ideale, l’entusiasmo e la delusione della generazione di intellettuali che inaugura il Novecento.