Cesarino aveva una gran paura del passato remoto. Quando sentiva qualcuno che diceva “andai” oppure “caddi” o anche semplicamente “dissi”, si tappava le orecchie e chiudeva gli occhi.
Il passato remoto secondo lui poteva andare bene sì e no quando si parlava di Nabucodonosor, di Alessandro Magno o di Federico Barbarossa, ma se lo sentiva in bocca ai suoi compagni li vedeva già morti e imbalsamati. Per piacere non dire “arrivai”, li pregava a metà del discorso, ma nessuno gli dava retta. Il passato remoto creava fra lui e i suoi amici, fra lui e il mondo, delle lontananze che lo spaventavano come il buio della notte o la pioggia nella giungla.
È vero che i genitori di Cesarino non lo lasciavano andare in giro di notte da solo e non si era mai avventurato nella giungla sotto la pioggia, ma la sua immaginazione gli richiamava alla mente queste paurose analogie. Se almeno i suoi amici avessero accettato di mettere davanti al passato remoto un “forse”, già sarebbe stato più contento. Ma non era mai riuscito a convincerli.
Eppure era sicuro che si può vivere benissimo anche senza il passato remoto. A scuola aveva tentato in tutti i modi di rifiutarlo, ogni volta che ne trovava uno nei libri di testo lo sostituiva con un passato prossimo o un imperfetto: al ginnasio aveva corretto Leopardi e Manzoni e al liceo Dante e Petrarca facendo ammattire i professori.
Quando finalmente Cesarino, finita l’università, aveva incominciato a lavorare come ingegnere idraulico, il passato remoto era ormai scomparso definitivamente dalla sua vita. Non lo usava mai né a voce né per scritto dimostrando che aveva ragione lui, che si può vivere benissimo senza il passato remoto, che si può ugualmente avere successo nella professione, che senza passato remoto si possono avere anche dei figli e vivere felici e contenti.
Luigi Malerba, “Il passato remoto” (da Storiette tascabili, 1984, Einaudi)