C’era a quei tempi, in un regno dell’Europa meridionale (forse la Spagna), una principessa che aveva nome Splendore. E in verità più splendida non avrebbe potuto essere: era bella come una rosa di maggio. Se non chè… É risaputo che i popoli meridionali amano molto la luce, il colore, il movimento, il frastuono; ma la principessa portava all’ esasperazione questa passione. Per lei non c’erano mai colori troppo sgargianti per vestirla, né luci abbastanza vive per vederci, tanto che la balia, a furia di star sempre con lei, era diventata cieca; e gli strumenti che coi loro suoni dovevano rallegrarla non sonavano mai abbastanza forte, tanto che il direttore d’orchestra era diventato sordo. Infine la principessa gesticolava parlando, come gesticolano le pescivendole in piazza. E non conoscendo le sfumature nemmeno nei sentimenti, passava dal riso più sfrenato al pianto più straziante, più angoscioso, senza alcun trapasso.
La fama della sua bellezza aveva superato i confini del regno, e non passava giorno che da qualche parte del mondo non arrivasse qualche pretendente alla sua mano. Ma, dopo pochi giorni di permanenza in quella Corte cosi fragorosa e abbagliante, se ne fuggivano via storditi e spaventati.
Un giorno però arrivò alla Corte il principe Discreto. Veniva dalla terra d’Olanda, dove il cielo, le acque, le campagne, il mare, tutto ha colori delicati e tenuissimi; dove tutti i suoni sono fievoli, ovattati, soffocati; e il sole stesso brilla con moderazione. Questo principe (i suoi occhi erano azzurri come il fiore del lino e la sua voce scendeva soave al cuore) senti subito un vivo affetto per la bella Splendore: fu si anche lui stordito dalle troppe luci e dai troppi suoni, anzi forse ne soffri più degli altri, venendo da un ambiente tanto diverso; ma, anziché fuggire spaventato, si senti avvinto maggiormente alla principessa da un sentimento di gentile pietà: oh, che cosa avrebbe dato per insegnare la grazia del sorriso a quella povera creatura esasperata, che sapeva solo piangere o ridere, che non conosceva la gioia dei toni blandamente degradanti, dei tocchi leggieri, dei passaggi sottili, dei rumori attutiti, delle modulazioni vellutate!
Il primo giorno che aveva visto Splendore, le aveva regalato un fiore, niente altro che un fiore. Era un gesto gentile e pudico, di cui la principessa purtroppo non poteva capire tutto il valore.
— E’ un fiore del mio paese — aveva sussurrato.
Era un grappolo di piccoli fiori simili a campanelli, di color ambra verdognola; e dai sottili filamenti che uscivano fuori dallo stelo si capiva che doveva trattarsi di una pianta rampicante. Splendore aveva riso rumorosamente prendendo quel fiore, e aveva condotto l’ospite a visitare i suoi giardini, tutti pieni di colori sgargianti, di fragranze intense, snervanti. Uccelli con piume variopinte svolazzavano tra i rami degli alberi, nel fulgore squillante di un sole sfacciato. Tanto poco la fanciulla apprezzava il languido fiore olandese, che a un certo punto le cadde di mano, ed ella neppure se ne accorse.
Passarono i giorni, le settimane. Un bel mattino, il principe (sempre più fisso nella sua idea d’insegnare a Splendore il sorriso) aggirandosi solo soletto pel giardino, si accorse con commozione che il ramoscello della pianta rampicante che aveva regalato alla principessina, e che questa aveva lasciato cadere al suolo, si era abbarbicato tenacemente al terriccio della aiuola nella quale era caduto, e adesso aveva preso a germogliare. Discreto ne fu intenerito, e da quel giorno curò con particolare amore la pianticella che si ostinava a crescere anche in terra d’esilio: le diede a sostegno un arbusto di cedro, e dopo qualche tempo, piccoli grappoli di fiori con le corolle di color ambrato dondolarono dolcemente ai soffi degli zeffiri.
E una sera, verso il crepuscolo, Discreto volle condurre Splendore nel luogo dove prosperava la pianta delicata.
Mentre i due giovani erano lì, muti, a contemplare quei fiori, ecco che a un tratto giunse al loro orecchio un canto flebile, ma soavissimo. Erano trilli tenui, delicati, vellutati, pieni più di dolcezza che di forza. Guardarono, e videro, sulla cima dell’alberello che serviva di sostegno alla pianta, un uccellino dalle penne grigie che si dondolava cantando. La principessa, pallida, con le mani giunte come dinanzi a un miracolo, ascoltava: il suo viso aveva un’espressione nuova, più gentile. Quel canto di una purità di cristallo, con note lievi, quasi soffocate in gola, che tuttavia sapevano elevarsi alle altezze sublimi di un’ineffabile armonia, era per lei una rivelazione che la trasfigurava. Le sue labbra ebbero un movimento quasi impercettibile, e qualcosa di nuovo e di stupendamente grazioso balenò nel suo bellissimo volto.
La principessa Splendore sorrideva per la prima volta in vita sua.
Discreto era luminoso di gioia.
— Questa pianta e questo uccellino sono entrambi del mio paese — disse il principe. — La pianta si chiama comunemente «la gioia del pellegrino », perché cresce vicino alle fresche sorgenti e par invitare i viandanti a una sosta: è la pianta del luppolo. E l’uccellino è l’usignuolo, certo venuto sin quaggiù dalla lontana Olanda, richiamato dal profumo tenuissimo di questa pianta.
— Altezza, — sussurrò Splendore, che per la prima volta in vita sua parlava con voce sommessa — come vorrei sentir questo canto per tutta la notte!
Discreto prese allora una mano della bella fanciulla e le disse:
— Se voi, Splendore, consentite a esser mia sposa e principessa ereditaria del Paese delle Acque, udrete cantar tutte le notti l’usignuolo e vedrete distese interminabili di questi fiori del luppolo. Volete?
La principessa non rispose. Lo guardò con occhi velati da lagrime di tenerezza, e capiva che quel silenzio diceva più di quel che avrebbero detto mille parole.
I due giovani quella sera tornarono fidanzati alla reggia. E qualche tempo dopo ebbero luogo le nozze.